Un libro da raccontare

Jacques Spitz e i suoi libri dimenticati

Jacques Spitz nacque nel 1896 in Algeria, il padre era un militare di carriere di origine alsaziana.
Spitz si laureò brillantemente al Politecnico di Parigi e divenne ingegnere consulente. Tuttavia era poco interessato al suo lavoro in quanto la sua vera passione era la letteratura e, se vogliamo esprimerci in questo modo, il distacco dalla materialità della vita. Scrisse, romanzi e saggi, influenzato principalmente da Valèry, Kant, Pirandello e dal movimento dei Surrealisti.
I suoi libri ebbero scarso successo e, al giorno d’oggi, risulta quasi dimenticato se non fosse per la riscoperta che ne hanno fatto, negli anni settanta, Fruttero e Lucentini, all’epoca curatori di Urania, che pubblicarono, proprio in questa rivista, quello che è considerato il suo capolavoro: “L’Oeil du Purgatoire (L’occhio del Purgatorio) – 1945” e pare che questa tradizione si perpetui poichè, anche l’attuale curatore, Giuseppe Lippi, dimostra di coltivare un certo interesse per quest’autore del quale, a partire dal 2006, ha proposto altre opere tra le quali la mia prediletta: “La Guerre des Mouches (La Guerra delle Mosche) – 1938”.
Il libro di cui voglio parlare è “Urania Collezione n. 105″ – pp.143 – 2011”, il quale raccoglie, nella splendida veste nera che caratterizzava questa collana, (ora purtroppo completamente mutata), i due romanzi sopra citati.
Partiamo con “L’Occhio del Purgatorio” – Spitz propose, con circa 20 anni di anticipo, l’approccio e le tematiche della “new wave” di moorcockiana memoria (l’esplorazione dello “spazio interno”), quando ancora il termine science-fiction ancora non circolava in Europa. Per lui l’escamotage da cui decolla la vicenda è un pretesto per poter scavare, con ironia e intelligenza nelle profondità della psiche e, così, denudare le manie, i pregiudizi ed i clichè di cui è imbevuta la società umana.
Il protagonista è Jean Poldonsky, un pittore bohemien di Montparnasse, una personalità imbevuta di sè, che spregia il prossimo ed i suoi “colleghi”, talentuoso ma anche fondamentalmente pigro. Un giorno incontra uno scienziato vagamente bislacco che, a sua insaputa, lo rende cavia di un esperimento, gli inietta negli occhi, dopo averlo fatto addormentare, un parabacillo che avrebbe (anzi, ha!), la facoltà di anticipare il futuro. Da qui, senza prima riuscire a capirne il motivo, Poldonsky comincia a vedere cose strane: i giornali appena comprati sono già gualciti, la gente gira con abiti lisi, il cibo sembra andato a male, anzi, alcune volte, da l’impressione che sul piatto al ristorante gli viene servito un miscuglio che sembra cibo in fase di digestione, il vino pare urina calda!
Piano piano Poldonsky comincia a sospettare la verità, purtroppo l’azione del parabacillo è perniciosa ed esponenziale e, quindi, le cose e gli essere attorno a lui invecchiano sempre più velocemente. Comincia a vedere in girò i primi cadaveri ambulanti, splendide costruzioni ora diventano ruderi abbandonati.
Capisce che tutt’intorno a lui le cose sono normali, infatti in un primo tempo inizia a scattare fotografie dove vede che il mondo si presenta come dovrebbe essere. Gli altri sensi, se chiude gli occhi, gli portano i suoni, gli odori e le sensazioni tattili attuali. Però la vista registra, invece, il futuro sempre più lontano.
In molte storie il protagonista, magari un essere superficiale ed egocentrico, colpito da un evento particolare (reale o fantastico), generalmente si ravvede e si trasforma in una personalità “positiva”. Nel romanzo di Spitz invece il pretesto fantastico esacerba il temperamento di Poldonsky: da una lato egli affonda nel suo cinismo e nella sua feroce ironia, scopre sempre più che tutte le cose che molti giudicano importanti, come l’appartenere ad una certa classe sociale, come l’atteggiarsi od il vestirsi in modo “consono”, ecc., non sono altro che futili orpelli, maschere e facciate che non durano nulla, dall’altro si rende conto coi suoi occhi (una cosa è il saperlo astrattamente, l’altra è invece “vederlo” impietosamente!) che, in fin dei conti, non siamo altro che cadaveri ambulanti, che non esiste scampo nonostante qualsiasi azione compiuta, grande o meschina che sia. Tutto è destinato a scomparire, la bellezza è momentanea e si corrompe (o forse alla fin fine non è mai esistita, se non nella mente di chi la giudica), la natura stessa va incontro al suo sfaldarsi.
Ed infatti arriva il momento in cui i suoi occhi, dopo avergli “proiettato” perfino il suo invecchiamento e la sua morte, fino allo stato scheletrico, ed il pianeta stesso che diventa un deserto di povere, gli mostrano la fine dell’universo, in cui le ultime stelle si spengono a poco a poco e la notte eterna inizia ad avvolgere ogni cosa.
E’ un viaggio nell’anima, che mette in dubbio le cosiddette verità imprescindibili ed analizza impietosamente i costrutti comportamentali, etici e morali di una società vista, soprattutto, come un carnevale di falsità.
Certo, basare un romanzo su un’idea, originalissima per altro, di questo tipo non è facile. ma Spitz dimostra una grande capacità nel condurre il narrato, nell’analizzare le sensazioni del protagonista e nel dipingere, con macabra ironia e forte senso del “surrealismo”, questo viaggio nel disfacimento.
A cosa porterà questa discesa nella corruzione della materialità Poldonsky-Spitz? Egli stesso si definisce nel romanzo”…un viaggiatore in marcia verso l’ignoto!”, naturalmente è compito del lettore scoprirlo (già ho detto pure troppo!!).
Della “Guerra delle Mosche” ne parliamo la prossima volta. Ciao!

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