La Mediazione umanistico-filosofica: un nuovo paradigma

La mediazione dei conflitti di cui parliamo va oltre i migliori propositi e l’idea di un mero “accordo” che è spesso intimamente insoddisfacente perché basato sul compromesso o la rinuncia. L’idea che fra i due litiganti, uno vince e l’altro perde e che il perdente cercherà vendetta, o che tra i due litiganti il terzo gode, è messa in discussione. In realtà, il terzo dovrebbe piuttosto “mediare” per evitare che ci sia una vittima finale.
Il senso più profondo della mediazione dei conflitti risiede quindi nel suo essere un sistema di pensiero e una metodologia innovativa. Essa permette di vedere il conflitto non solo come qualcosa di connaturato alla natura umana, ma anche come lo strato più superficiale di qualcos’altro da scoprire. In questa prospettiva, il conflitto è davvero una risorsa, una grande occasione di conoscenza. Risponde ad un bisogno universale: quello di dare un senso e una qualità alle nostre vicende personali e professionali.
Il nuovo paradigma di pensiero, ovvero la nuova linea culturale chiamata Mediazione dei conflitti, propone un cambio di mentalità radicale.
L’idea diffusa di ” spegnere la mia candela per far brillare meglio la tua?”, evidenzia come non si sia mai fatta esperienza di quanta “luce” possa esserci per tutti se più candele trovano il diritto e il posto per ‘splendere’.
In questo contesto si inserisce la Mediazione umanistico-filosofica. Questo approccio, basandosi sull’intelligenza emotiva, rende possibile una relazione con l’altro in cui l’io e il tu attuano un felice scambio basato sulla diversità. Il mediatore è la figura centrale che permette a entrambe le parti di concludere il conflitto con piena soddisfazione, superando il paradosso apparente che ciascuna risulti vincitrice attraverso un processo quasi indicibile che avviene durante la sessione di mediazione.
La mediazione trasforma i limiti e le difficoltà in risorse per raggiungere equilibrio e benessere. È un viaggio in profondità alla ricerca del senso in cui si è immersi, che stimola il pensiero critico e l’attenzione alle istanze del proprio sé. Non si limita a chiedere il come delle cose, ma anche il perché, promuovendo un’ottica in cui l’educarsi a diventare adulti in senso pieno è il compito principale della vita.
Il lavoro, che dovrebbe essere luogo di realizzazione e benessere, appare invece teatro di lotte sanguinose ma non necessarie. Si può citare per esempio il fenomeno del mobbing, un comportamento aggressivo e violento sul posto di lavoro, che, mutuato dall’etologia, descrive l’accerchiamento, lo spavento e il ferimento di un contendente. Nel contesto lavorativo umano, il mobbing si manifesta nell’essere isolati, sabotati, derisi, sminuiti o resi inutili. Questo porta la vittima a provare disagio, insicurezza, ansia, depressione o aggressività, spesso somatizzate, fino a perdere le staffe e a una guerra totale in cui i ruoli di vittima e carnefice si confondono. L’illusione che il tempo risolva i problemi, tipica di chi si sente inerme, porta alla radicalizzazione del conflitto, con momenti di lotta aperta che si alternano a ostilità più subdole ma ugualmente gravi.
Paradossalmente, a volte, l’origine del conflitto può essere una “espressione di vita, di voglia di esserci e di fare”, che provoca una reazione difensiva in chi teme di essere messo in scacco dalle iniziative altrui. Più valide appaiono queste iniziative, più vengono vissute come minacciose e quindi da far morire al loro nascere.
Troppo spesso la dinamica interna degli uffici, sembra assomigliare a minuetti danzati con grande eleganza e affondi degni della migliore scherma che celano strategie di competizione fra bravi e coalizioni che giustificano la contrapposizione. Queste dinamiche traggono origine da una falsa idea di gruppo dove un leader, per consolidare il proprio ruolo, usa individui dalla personalità non emergente, offrendo loro un’indotta importanza attraverso lusinghe e prevedibili misconoscimenti. Questo tipo di società per azioni vede i membri uniti non tanto “per” un obiettivo comune, quanto “contro” qualcun altro. Le energie sono massimizzate non per il valore formativo di un progetto o la centralità degli obiettivi del servizio, ma per la difesa del proprio “territorio” e del proprio successo.
La mancanza di competenza relazionale e l’ignoranza della ricchezza che deriva dalla diversità nella collaborazione portano a considerare l’altro come un semplice corollario dell’Io, perdendo la possibilità che “uno più uno non faccia due, ma tre”. L’accesso alle vie legale, costose e sanguinose ne è l’esito.