Teatro

Brancati, con “Pipino” torna in scena la Sicilia. Trionfalmente

La Sicilia è tornata ieri in scena.

Trionfalmente.

Parliamo dell’Isola che fa innamorare, quella delle grandi maschere, dei Giufà, dei Peppi Nappa, degli attori che si fanno personaggio, come Ancilu ‘a musca. La Sicilia dell’Opra dei pupi, delle guarattelle, dei  miniminagghi, dei cartigli da cuntastorii, dei canti d’amore e soprattutto delle musiche capaci di condurti in un batter di ciglia da un malinconico spleen a un’irrefrenabile allegria.

Giù il cappello, Signore e Signori, davanti al “Pipino”, il musical delle meraviglie, che, a quarantaquattro anni dal debutto, ha ricondotto magicamente diverse generazioni di spettatori verso quella spensierata giovinezza che ebbe i suoi cori e le sue canzoni come colonna sonora.

È la nostra dote, il “Pipino”, ricchissima eppure talmente impalpabile da poter essere racchiusa in un’unica truscia.

Non deve stupire che sia letteralmente venuto giù il teatro, ieri sera a Catania, nella sala Brancati.

Probabilmente Tuccio Musumeci, con il pessimismo che lo ha sempre contraddistinto, temeva di volar via per lo spostamento d’aria causato da quell’uragano di applausi. Frutto non solo della sua esaltante interpretazione, ma del ruolo stesso che l’attore ha avuto nella nascita di questo spettacolo.

Fu proprio Musumeci, che oggi ha 88 anni, a bloccare quasi mezzo secolo addietro l’agrigentino Tony Cucchiara che aveva scritto una prima stesura del “Pipino” e voleva proporla a Roma: “Talia, parra cu’ Mariu Giusti”. Approdò così allo Stabile di Catania quest’opera dalle musiche meravigliose e con una storia che mancava un po’ di pepe. Ma ci avrebbe pensato Renzo Barbera, con pennellate d’irriverenza e poesia, a rendere la vicenda variopinta come i disegni d’un carretto siciliano.

Quando cominciarono le prove della prima edizione, del 1978, nel teatro Delle Muse, come si chiamava allora il Verga, la pentola ribolliva borbottando mentre il profumo del successo si spargeva tra i velluti rossi. Renzino, grande tennista, dalla sala lanciava la palla agli attori, primo fra tutti Tuccio, e quelli rispondevano da par loro. Giuseppe Di Martino dirigeva, mentre Giusti e Pippo Meli controllavano. Come sempre.

Nacquero così innumerevoli gag, come quella del cacciatore Lamberto, interpretato dall’avvocato (lo era davvero) Turi Scalia, che faceva sbellicare dalle risa il pubblico urlando: “Per San Giovanni la Punta! Per Sant’Agata li Battiati”.

Ecco perché Tuccio Musumeci, ieri, avrebbe davvero meritato di levarsi in volo sostenuto dagli applausi: seguendo la tradizione dei grandissimi capocomici etnei, da Angelo Musco a Turi Ferro, in questi quarantaquattro anni non ha mai smesso, con precisione maniacale, di perfezionare l’umanità tutta catanese del personaggio di Pipino.

Sì, perché se la musica di questo spettacolo è di un girgentano e parte del testo di un palermitano, gli interpreti erano e sono (quasi tutti) catanesi. A cominciare da Tuccio che è oggi, come d’altronde il “Pipino”, un monumento: solo per certi, popolarissimi, melodrammi, accade di veder stampato un sorriso sul volto degli spettatori che, con gli occhi socchiusi, sillabano le parole di una canzone. Ma assistendo a quest’ode al teatro siciliano, mi è capitato di vedere il pubblico mormorare, a memoria, brani del testo, come nella recita del Rosario da parte di Pipino e dei regnanti d’Ungheria, che nella prima edizione erano gli straordinari Pippo Pattavina e Anna Malvica.

Così, giustamente, Orazio Torrisi ha scelto questo spettacolo per inaugurare la stagione del Brancati, affidandolo a un regista del calibro di Giuseppe Romani, al coinvolgente coordinamento musicale di Roberto Fuzio e alle spettacolari coreografie di Silvana Lo Giudice. Per una nuova, indimenticabile, versione, visto che la grandezza del “Pipino” sta nell’essersi sempre saputo rinnovare.

Anche se la storia del “breve” figlio di Carlo Martello – che, ormai vecchio, , fin quando non nascerà “Lu re di li re, Carlu Magnu”, teme di non riuscire ad avere un erede che sieda sul trono di Francia –  è rimasta sempre la stessa, a colorirla, negli anni, sono stati strepitosi narratori.

Stavolta, a recitare sulle variopinte scene del compianto Francesco Geracà, autore anche dei costumi (ma le armature da pupo si devono a Fiorenzo e Davide Napoli), accanto all’inarrivabile Tuccio Musumeci c’era Lydia Giordano (bella, brava e dalle grandi doti canore) nei panni di Berta.

Applauditissima, Lydia. Come gli straordinari Olivia Spigarelli ed Emanuele Puglia, quasi un’unica persona nell’interpretare regina e re d’Ungheria. Consensi anche per il trio d’ambasciatori di Pipino: Cosimo Coltraro (Morando di Ribera), Danilo Castro (Bernardo di Chiaramonte) e Andrea Di Falco (Aquilone di Baviera), con Evelyn Famà (la traditrice Falista) e Gabriele Manfredi (suo padre, Belisario di Magonza).

Applausi a scena aperta per l’irresistibile Margherita Mignemi nei panni di Lamberto e per la Lamentatrice Laura De Palma. Da citare anche Massimiliano Costantino (Marante) e la folla di cortigiani e popolani che rappresenta l’ossatura di una rappresentazione fatta di danze e cori: Aurora Cimino, Dario Castro, Francesca Coppolino, Lorenza Denaro, Andrea Di Falco, Alba Donsì, Gabriele Manfredi, Andrea Pacelli, Gabriele Rametta, Claudia Sangani, Giorgia Torrisi. E naturalmente i bravissimi musici: il già citato Roberto Fuzio (che funge anche da cantastorie per raccordare certi momenti della narrazione) Flaminia Castro, Francesco Messina e Alessandro Pizzimento.

L’ultima notazione riguarda ancora il festeggiatissimo Tuccio Musumeci: sbaglierebbe chi lo considerasse, nel “Pipino”, semplicemente un attore che interpreta un re. È un sovrano egli stesso. Non di una grande Nazione ma di un piccolissimo spazio con tre pareti e un pavimento di tavole.

Che però è al centro delle nostre anime.

Le foto dello spettacolo sono di Dino Stornello

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