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Le città invisibili della Sicilia

C’era una volta una terra che profumava di zagare e sale, parlava in dialetto e sognava in silenzio. Una terra di pietre calde, fichi d’india e voci dei mercati che si rincorrevano tra i vicoli. Ma poi, un giorno, le voci si fecero flebili fin quasi a scomparire, le persone partivano per cercare fortuna e il sogno si trasformò in reale partenza. La Sicilia ha conosciuto la spartenza — parola che Andrea Camilleri ha reso viva nella memoria degli isolani. Una parola che evidenzia la separazione bruciante. “La spartenza è una cosa amara”, scriveva, “perché non è mai una scelta, ma una condanna.” Egli stesso, fu costretto a partire nel 1949, per dar voce alla sua vocazione che qui non gli avrebbe dato “il pane”. E così, i borghi e le città si svuotarono per motivazioni più che valide: fame, necessità, desiderio di valorizzare i propri studi. Ogni scelta portava su di sé il peso di un sogno in frantumi e la rassegnazione di chi non aveva saputo inventare la soluzione per sbocciare nei luoghi che amava.

La spartenza è un fatto storico, ma anche una favola amara che si ripete da generazioni. È il filo rosso che attraversa i secoli e cuce insieme le storie di chi ha lasciato la propria terra per cercare altrove ciò che qui non poteva più trovare. È il padre che parte per il Belgio, il figlio o la figlia che emigra a Torino, la madre che resta a guardare il mare come se potesse restituirle qualcosa. E mentre le persone partivano, i paesi restavano. Ma non vivevano: si svuotavano. Le scuole chiudevano, le botteghe abbassavano le saracinesche, le feste patronali diventavano eco, aumentavano i cartelli “vendesi” attaccati alle serrande abbassate. Ogni borgo abbandonato è una favola interrotta, un libro aperto sotto la pioggia. Tetti crollati, insegne scolorite, porte che non si chiudono più: tutto parla di una vita che non ha avuto il tempo di finire né dato l’opportunità di iniziare. E poi ci sono i borghi mai vissuti, come i Villaggi Schisina. Sette insediamenti costruiti negli anni ’50 tra Francavilla di Sicilia e Castiglione di Sicilia, pensati per ospitare contadini espropriati, promessi sposi di un futuro agricolo che non arrivò mai. Le case, spoglie e senza servizi, furono rifiutate. Solo quindici furono abitate. Il resto rimase vuoto, come una lettera mai spedita. Oggi, tra le rovine, si sente il sussurro di ciò che non fu: la scuola mai aperta, l’asilo senza bambini, la caserma senza legge. In altri casi, la fuga fu forzata. Il terremoto del Belice nel 1968 non solo distrusse Poggioreale, ma spezzò il legame tra la terra e chi la abitava. La ricostruzione, infatti, non bastò a trattenere le persone. E l’anima della vecchia Poggioreale, rimase lì, come un fantasma di pietra. Ci sono poi i borghi nati attorno a miniere, centrali o progetti industriali, come quelli nel cuore dell’Ennese o del Nisseno. Quando le attività si fermarono, la gente partì. Senza lavoro, non c’era più motivo di restare. E così, l’emigrazione economica ha svuotato intere comunità, lasciando dietro di sé solo il rumore del vento tra le persiane. Infine ci sono i comuni e i borghi marinari, le cui strade conoscono ancora il passo dei bambini, il profumo del pane, il saluto lento degli anziani. Eppure, qualcosa manca. Sono città dove la spartenza non ha chiuso solo valigie, ma ha portato via anche i sogni e ha tolto l’antica vitalità. Infatti dove un tempo le finestre delle case riflettevano il sole e i pescatori, con reti logore ma cuori pieni, cantavano melodie portate dal vento, un giorno, il vento cambiò. Non portava più canti, ma sussurri di nuove terre lontane, promesse di ricchezze e sogni più grandi di quelli che il piccolo borgo poteva offrire. I giovani, con occhi pieni di speranza e valigie leggere, partivano, lasciando dietro di sé porte socchiuse e cuori sospesi. Tuttavia nessuna città o borgo della Sicilia muore mai veramente, ma diviene invisibile, come se solo il mare potesse ancora vederlo. E c’è chi decide di non andare via. Pianta fiori nelle crepe dei selciati, dipinge i muri sbiaditi con colori vivaci e apre una piccola bottega dove vende ricordi, sogni e speranze. È così che le città invisibili come quelle di Calvino, continuano a vivere.  In un modo nuovo, fatto di memoria e prospettiva. Come Zaira, che conserva il palinsesto dei ricordi nel suo stesso spazio; o Ersilia, dove le relazioni sono più tangibili delle pietre e tessono trame di fili pesanti.

“L’imperatore domandò a Marco se ricordasse una città che non aveva mai visitato. Marco chiuse gli occhi e rispose: ‘Sono proprio quelle che mi tornano più spesso in mente, perché nessuna mappa può cancellarle.’”

La Sicilia è piena di diverse realtà comunitarie e città invisibili, ma tutte raccontano una stessa storia: quella di una terra che ha dato molto, ma ha perso altrettanto. Eppure, in quel silenzio, qualcosa resiste. Perché, come tutte le favole, anche questa ci insegna qualcosa: non sempre è il luogo a dover cambiare per restare vivo. A volte, basta uno sguardo diverso, una bambina curiosa e il coraggio di ascoltare il silenzio in cui si sente un eco… forse un monito, forse un invito. A non dimenticare che anche le favole non a lieto fine hanno qualcosa da insegnare.

Foto di Davide Mauro – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62024715

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