L'Opinione

Tra cielo e volontà, descrizione poetica della realtà e motivazione della sua causa

Quanti sono i modi possibili di relazionarci col mondo della natura e della storia? È sufficiente conoscere o è auspicabile una più raffinata messa in discussione dei contenuti del conoscere? Questo articolo ripercorre il cruciale passaggio da una conoscenza poetico-mitologica della natura, a una speculazione filosofica sul “perché” delle cose, giungendo a ipotizzare un regresso di questa domanda di senso nel nostro mondo sovraffollato di informazioni e immagini che vengono contemplate e non più messe in discussione, ricordando dunque l’arcaica sensibilità estetica del mondo pre-filosofico.

La Filosofia, fin dalle sue origini greche, è alla ricerca del concetto puro senza storia, principio di esistere.

Prima del filosofo questo arduo compito era affidato al poeta, cantore della natura e dei suoi misteri.

Il poeta come origliatore di racconti guardava il cielo come un personaggio colmo delle stesse volontà che rimpinguano la mente dell’uomo, stratificazione decisionale di un animale razionale. Questa prospettiva deificata, culminante nella Teogonia di Esiodo, serviva a ricongiungere al fenomeno irrazionale sia come legge o ancora meglio come processo base che costituisce la basilare naturalità dell’evento. In altre parole il poeta antico provava a guardare gli eventi senza il sottotesto di domande oggi irrinunciabili. Questo non significa che mancasse di curiosità, piuttosto le sue domande indagavano il cosiddetto spettro visibile e invisibile che attorniava il torchio della mente.

La svolta ad opera della Filosofia s’intesse in una ragionata critica alla visione poetica della realtà priva dei nodi logici calcolatori, inaugurando piuttosto una panoramica dell’universo sulla base di considerazioni semplici continuamente testate dal quotidiano operare dei fisici dei principi tra cui Talete, Anassimene, Anassimandro. Il passaggio dalla narrazione di vicende talvolta oscure e contraddittorie (il mito) a enunciazioni fredde ma in grado di mantenere coerenza dal principio alla fine (il saggio scientifico), è un evento traumatico, necessario come un antico e doloroso rito di iniziazione, una vera e propria spada diretta contro la passività del passato, un’epoca che nella sua capacità affabulatrice crea problemi al nuovo corso del pensiero, che taglia senza remore il legame con la favola del mondo mitico con la stessa radicalità di un rasoio di Occam, semplificare per giungere alla pura visione logica delle cose.

L’attuale pensiero scientifico è debitore di questi ingenui ma inarrestabili primi passi. Un simile sguardo non serve a denunciare l’eccessiva complessità delle scienze esatte che ha realizzato e parzialmente formato il mondo di oggi, anzi. I primi contemplatori della realtà non erano affatto privi degli strumenti matematici ed ermeneutici di cui oggi siamo provvisti. I loro calcoli come lo studio del calendario e degli agenti atmosferici di cui tale si serve per prevedere la siccità o successivamente il modello fisico-matematico di Aristarco riferito all’orbita circolare della terra attorno al sole, questi facevano presagire l’impulso verso la scoperta affiancato ad un rigore scientifico.

A questo punto è necessario constatare quanto manchi ai loro attuali eredi l’antico afflato filosofico che diede l’iniziale spinta al processo: oggi scoprire qualcosa non significa ragionare sulle sue opportune funzionalità dentro la mente e fuori da essa, significa piuttosto riversarla all’interno di gruppi e comunità che non devono fare altro che imparare a utilizzarle. Ecco perché abbiamo delegato alle immagini il ruolo di sostenere il rapporto ormai quasi inesistente tra pensiero e azione. La questione posta in questi termini sembra di aver sentenziato che le macchine abbiano smesso di farci comunicare attraverso parole, ma è esattamente così: gli antichi pensatori si attenevano alla possibilità attuale e presentissima delle loro deduzioni senza creare inutili teologismi che servissero a giustificare l’origine. Ad esempio: perché “un oggetto come un sasso torna alla terra?”. Ecco, la problematica consiste nel cercare la causa quindi i “perché?” piuttosto che il “come?”.

Non stiamo dicendo che oggi si possieda un vaso di Pandora in tasca che ci consenta di sentirci sempre in dovere di aprirlo di continuo subendo l’assalto di una mole di informazioni che distrattamente ci formano. Viceversa, il martello che ha in mano il Filosofo lo porta a demolire per poi ricostruire, in altre parole non viene dato nulla per scontato e non soggetto a disamina filosofica. Nietzsche stesso ha dato nel libro, Crepuscolo degli idoli, come si filosofa col martello, una visione della decadenza del pensiero che si erge a obbligo teoretico e diviene cieco nei confronti dello spettacolo della natura. Quindi per superare il passato è indispensabile la dolorosa frattura che rimarginandosi porterà al futuro del pensiero, e ciò è avvenuto nel passaggio dal mito alla filosofia, dai pittoreschi racconti sugli Dei all’enunciazione pacata di tesi e antitesi in cordiale e proficua relazione.

Il torpore generale del vegetare nella zona confort che oggi tutti cercano con affanno è da evitare, ma non è un processo automatico quando intorno a questa zona viene eretto un muro di protezione contro i barbari del pensiero critico che vorrebbero relativizzare valori consolidati e utili per la sopravvivenza quotidiana. Più che filosofare col martello è necessario il piccone contro il muro invalicabile, come è sempre accaduto nelle epoche di grandi mutamenti culturali, mutamenti che oggi vengono mascherati da un incessante evoluzione delle comunicazioni in rete, rivelandosi come adattamento dei processi mentali alla superficialità dell’informazione utile al momento, all’oblio di un pensiero che oltre a sapere “come” fare qualcosa, se ne chiede il “perché”.

Qui si crea una ulteriore frattura nel passaggio da un tipo di conoscenza basata sul mito e diffusa universalmente, in un tipo di conoscenza scientifica che non è alla portata di tutti (la quantità di informazioni rimane superficiale nozionismo e non di certo scienza), quindi la diffusione della supposta verità avviene in un mondo sì democratico e rappresentativo che tuttavia non concede alla gente comune la possibilità di accedere a una conoscenza approfondita con pochi e semplici strumenti.

Ciò non significa che raccontare delle favolette renderebbe più semplice a tutti la comprensione di dinamiche politiche e scientifiche sempre più complesse. Ci stiamo riferendo all’uso evanescente che si fa dei titoli come le lauree e della ancor più evanescente dialettica dei rappresentanti politici, fatta non più per elevare raccontando ma per manifestare degli slogan e sintetizzare messaggi sobillatori. Quindi non si ama più l’intendimento delle masse, ma piuttosto le domande che spingono a un prolungato fraintendimento.

Sembra forse che scompaia la facoltà di pensare?

Tramite Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica notiamo non solo la macchinazione dell’arte ma ancor di più, sullo stile orwelliano, lo svilimento della scienza nella sua fredda efficienza della tecnica binaria: invece degli oggetti mercificati, a cui si riferiva Benjamin, sono gli stessi destinatari ad essere resi oggetti inermi, e così l’intero processo di condivisione delle informazioni. Questa fase di contemplazione di infiniti dati genera una grande difficoltà, praticamente un paradosso: pare riportare l’uomo alla fase poetica di osservatore, senza però il valore di feconda creatività estetica delle origini, con la conseguenza inaspettata di ritornare agli idoli dai quali si era salvato in quanto scopritore del pensiero in grado di chiedersi “perché”.

“Siate affamati, siate folli” di parole: Steve Jobs

* * *

Gira intorno a me il suono incostante del mondo

quella reminiscenza che mi ha fatto fecondo

dell’aria che circonda il suono

e del mezzo di cui se fatto tono

e tu dimmi cosa significhi per disperar perdono

dar senso alle parole moto tenue e a volte forte dell’uomo,

provoca sensazioni

perché la parola è trono e padrone

di mille asperità

e depositaria dell’ingranaggio di gocce oceaniche di felicità,

cosa ne ho fatto io del pendolo continuo dei miei problemi

se non guardo allietante suono dell’universo

che non pena

anzi vive dell’ampliamento

di cui è fatto un pensiero,

un uomo fatto e disfatto delle disfatte e dei suoi ben fatti,

e così scalfendo la superficie

riusciamo a dar senso al perdono alle parole,

quell’occhio perenne osservante e decisore.

* * *

Bibliografia:

Benjamin, Walter, Cesare Cases, e Paolo Pullega. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: arte e società di massa. Torino: Einaudi, 2000.

Nietzsche, Friedrich Wilhelm. Crepuscolo degli idoli: ovvero, Come si filosofa col martello. Milano: Adelphi, 1989.

Warren, James, e Mondadori. I presocratici. Torino: Einaudi, 2009.

Hesiod. Teogonia. A cura di Gabriella Ricciardelli. I edizione. Scrittori greci e latini. Milano: Fondazione Lorenzo Valla : Mondadori, 2018.

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