L'Opinione

La mediazione dei conflitti, tra tribunali e vita privata

In un’epoca dominata dagli haters, odiatori che non hanno più gli strumenti linguistici per esprimere a parole la loro rabbia e riescono a comunicare solo attraverso l’urlo e l’offesa, e in cui sembra di dover tristemente dare ragione ad Hobbes e al suo homo homini lupus, la mediazione dei conflitti, promossa dalla Riforma Cartabia, potrebbe rappresentare una interessante risposta di civiltà all’imbarbarimento delle relazioni nel nostro tempo. Secondo Maria Martello, giudice onorario della Corte d’Appello di Milano, la mediazione dei conflitti è un sogno che si realizza: quello di affiancare alla giustizia ufficiale e tradizionale, che si occupa di fatti oggettivi e ragiona in termini di violazione/ punizione, una giustizia altra, che tenga in considerazione il vissuto della persona e la sua storia personale irriducibile entro gli stretti confini di una legge.
Il vissuto, il dolore e i percorsi individuali di vittime e rei non sono infatti regolati dai codici e dalle procedure, tuttavia sono proprio quei vissuti a portare il reo ad infrangere la legge e la vittima e a far sì che, dopo il reato, la sua vita non sia più la stessa.
Con l’entrata in vigore della seconda parte della Riforma Cartabia (luglio 2023) è nata infatti una figura nuova per il nostro ordinamento giudiziario, quella del mediatore professionale: non è un giudice, o un avvocato, è, invece, un professionista competente, un umanista che mira ad aiutare “le persone” a raggiungere un accordo. Più precisamente, è una figura che mantiene l’imparzialità del giudice, ma non è tenuto a decidere al posto delle parti, in base ai principi del diritto sono inoltre aumentate le materie per cui il procedimento di mediazione diventa condizione di procedibilità della domanda.
Parecchie sono state le critiche mosse all’introduzione di questa nuova figura, soprattutto da parte degli avvocati, critiche che vanno dai dubbi di incostituzionalità, alle difficoltà pratiche di attivare gli organismi, dalla scarsa tutela dei confini professionali al pericolo di intaccare interessi e diritti di categoria. Tuttavia, dal momento che la mediazione è stata riconosciuta e legittimata, gli avvocati, pur avanzando dubbi e pur sottolineando alcune criticità, hanno dichiarato che rispetteranno la legge e metteranno a disposizione le loro competenze nella mediazione.
Il tema della mediazione è inoltre entrato a pieno titolo come strumento formativo per operatori del diritto, manager aziendali, scolastici e per chi lavora nel campo dell’associazionismo e del volontariato.
Malgrado questa sorta di “rivoluzione copernicana” si sia dunque realizzata la strada da percorrere è però ancora lunga sia perché bisognerebbe vigilare sui percorsi formativi che questa nuova figura, il mediatore appunto, deve intraprendere per arrivare a svolgere un ruolo così complesso e delicato, sia perché una legge non implica mai di per sé anche un cambiamento di mentalità.
La mediazione può avere l’effetto rigenerativo, di cui parla Marta Cartabia, solo quando la sua applicazione consente a chi è stato “ingiusto” di tornare “giusto”. Altrimenti, rappresenta “una promessa mancata”. Una ipotesi di facciata. Vuota e svuotata.
Occorre riconoscere la giustizia come un diritto inalienabile della persona come lo è il diritto alla salute, alla vita e all’istruzione. Ecco perché il tema della mediazione dei conflitti non può rimanere relegato alle aule dei tribunali.
Bisognerebbe, come scrivono Maria Martello, Tommaso Greco, Luciana Breggia, Pietro Bovati, Roberto Bartoli e Letizia Tomassone nel volume Il senso della mediazione dei conflitti, realizzare nell’ambito della giustizia, ma anche in quello della propria vita personale e sociale, una vera e propria “conversione culturale”. Operare come fanno gli archeologi andando alla ricerca delle radici del conflitto, che spesso si stratificano negli anni e si sedimentano fino a diventare grovigli inestricabili.
Solo nell’incontro reale la persona può ritrovare la sua dignità e la compassione per l’altro, nel senso letterale del termine cum pathos, e può porre fine a questa anestesia dei sentimenti che sembra caratterizzare i tempi in cui viviamo. Solo il dialogo e il reciproco mettersi in discussione può realizzare quel piccolo miracolo che porta ad una soluzione del conflitto nuova, inaspettata e rispettosa dei bisogni di tutti.
La ricerca della mediazione deve dunque entrare nella nostra vita quotidiana: dobbiamo partire dal nostro personale campo di sterpaglie e trasformarlo in un giardino fiorito; senza pensare a soluzioni facili e comode perché, e cito ancora Martello, sciogliere i conflitti è “come cardare la lana: occorre pazienza, lentezza e competenza”.
Siamo tutti chiamati dunque ad operare una scelta fondamentale. Chi vogliamo essere: Guerrafondai o “Artigiani di pace”?

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