Teatro

“Centoventisei”, al Verga torna la violenza, con la mafia delle vittime-carnefici

Conclusa la rappresentazione, nel Teatro Verga di Catania, vien voglia di correre a leggere il libro da cui è tratta, per capire di più e meglio quest’affascinante storia sulla normalità del male e sugli “umili pupiddi manovrati da un destino di nascita”.

Così descrive i tre protagonisti Livia Gionfrida, che firma drammaturgia, scene e regia dello spettacolo Centoventisei, tratto dall’omonimo romanzo di Claudio Fava ed Ezio Abbate e prodotto dallo Stabile etneo e dal Biondo di Palermo.

La 126 è quella che viene rubata e riempita di tritolo per uccidere Paolo Borsellino – mai nominato – ma non assistiamo, stavolta, ad alcun processo alla mafia, come, in quella stessa sala, era avvenuto con due formidabili testi di Giuseppe Fava: La violenza, nel 1970, e L’ultima violenza nel 1983.

Stavolta è in maniera differente che si parla della violenza, simboleggiata da quello sportello appeso a un gancio da macellaio, là in mezzo allo scuro ossessivo del palcoscenico.

Scuro, sì, buio pesto: tinge tutto d’una pacata disperazione. La medesima che ci colpisce nelle immagini televisive sulla guerra in Ucraina, o quelle di tutti gli innumerevoli luoghi del mondo in cui la violenza è la più semplice delle risposte a problemi complessi.

Anche la Palermo dei primi anni Novanta, dopo l’attentatuni a Giovanni Falcone, era tornata a essere una rassegnata zona di guerra. La città spargeva sulle anime dei suoi abitanti quello scuro profondo che veniva dal terrore delle armi e delle bombe. E delle auto in corsa, rivelate, come il modellino radiocomandato che corre sul palcoscenico, solo dallo stridio delle ruote e dalla luce dei fari.

L’unica possibilità era scacciare il buio dagli occhi serrandoli.

E cercare, in qualche modo, di sopravvivere.

Un essere che si abitua a tutto: è la migliore definizione che si possa dare dell’uomo”.

Questa frase – contenuta in Memorie da una casa di morti, libro di Fëdor Dostoevskij, scritto dopo la deportazione dell’autore, per motivi politici, in Siberia – può forse servire a comprendere la “mafia d’ogni giorno”, così ben descritta in Centoventisei perché si abbandonano finalmente certi stereotipi.

“A Palermo ci sono due specie di uomini: quelli che uccidono e quelli che muoiono” spiega Gasparo, protagonista dello spettacolo.

Lui è tra quelli che uccidono e a questo è stato abituato, fin da ragazzino.

Altro non conosce ed essere un assassino non gli impedisce di amare teneramente la moglie, Cosima. E di sentirsi in pena per lei, che resta incinta senza mai riuscire a portare avanti una gravidanza.

Cerca un colpevole, la donna, e alla fine lo trova nel marito, convincendosi che Dio stesso, offeso dal “mestiere” d’assassino, ha impedito la nascita dei suoi figli. Così, intima di smettere a Gasparo, che è “un mafioso, ma pure un bravo cristiano, un lavoratore, uno che si toglie gli occhi dalla faccia per farmi stare bene”.

Tutta in una notte si sviluppa la narrazione in Centoventisei: oltre al sicario e alla moglie, del racconto fa parte Fifetto, caricaturale apprendista mafioso mandato con il sicario a rubare l’auto. Convitato di pietra è invece “Totuccio Graziano, quello che tutti chiamano Domineddio”.

Perché il boss gli abbia affidato quella missione con un picciottu finora noto sol perché usava masturbarsi con le foto di Moana Pozzi, Gasparo non lo comprende: “Ho ammazzato ventotto cristiani… perché non gliela fai rubare a tua sorella questa centoventisei?” vorrebbe dire a Domineddio.

Poi, mentre l’utilitaria viene riempita di esplosivo che somiglia a pagnotte chiuse da nastro adesivo, Gasparo nota, accanto a Graziano, curiosi personaggi sorridenti, non palermitani. Agli “umili pupiddi”, certo, non è dato di comprendere chi siano i pupari. Ma, certamente, se lo chiedono.

E a volte si domandano pure se non esistano i pupari dei pupari.

Anche se sanno che questi quesiti sono destinati a rimanere senza risposta.

Poi, come in una tragedia greca, arriva l’epilogo del dramma di Cosima e Gasparo, che ha in sé tutto l’amaro della verità: la violenza prevale semplicemente perché, grazie a lei, tutto diventa più facile

Così, sommessamente, questo Centoventisei, senza esprimere giudizi, né assoluzioni, né condanne, riesce a offrirci un’inedita visione – matura, pietosa, umanissima – della realtà della manovalanza mafiosa, quella dei pesci piccoli, delle vittime-carnefici, finora così poco indagata.

E, chiuso il sipario, si resta come inquieti, ancora affamati, tanto che si vorrebbe poter prendere subito in mano il libro di Claudio Fava ed Ezio Abbate.

Questa sorta d’insoddisfazione che permane quando lo spettacolo è finito, potrebbe essere il contrappasso di talune scelte registiche, come il tentativo di creare una dimensione intimistica puntando su sussurri che, in certe parti dello spettacolo, rendono difficile persino comprendere le parole.

Oppure la volontà di dar vita a una rappresentazione minimale. Una buona idea, ma, solo per fare un esempio, la conseguenza è che l’essenziale disegno luci di Alessandro Di Fraia appare insufficiente a descrivere tutte le sfumature del dramma.

Centoventisei è comunque una rappresentazione da non perdere (sarà in scena fino al sette maggio, sempre al Verga), per la novità del testo e per la buona prova degli attori, a cominciare da Naike Anna Silipo, che interpreta Cosima con un’energia commovente, e David Coco, un Gasparo misurato e malinconico. Buona anche l’interpretazione di Gabriele Cicirello nei panni di Fifetto.

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