L'Intervista

Intervista a Maria Martello

Maria Martello già giudice onorario presso il Tribunale dei Minorenni e successivamente presso la Corte di Appello dei minori, da anni si batte per l’applicazione della mediazione dei conflitti, regolata di recente dalla riforma Cartabbia e successivi provvedimenti legislativi.

In un mondo caratterizzato da guerre e conflitti spaventosi; in una società in cui imperversano  disuguaglianze, ingiustizie e conflittualità sociali;  in un’epoca dominata dagli haters, odiatori che non hanno più gli strumenti linguistici per esprimere a parole la loro rabbia e riescono a comunicare solo attraverso l’urlo e l’offesa, e in cui  sembra di dover tristemente dare ragione ad Hobbes e al suo homo homini lupus, la mediazione dei conflitti,  grazie alle recenti riforme,  potrebbe rappresentare una  risposta di civiltà all’imbarbarimento delle relazioni nel nostro tempo?

Immaginiamo – afferma Maria Martello – una stanza diversa da quelle dei tribunali tradizionali: uno spazio semplice, senza simboli come la dea bendata o la bilancia, dove due persone sedute a un tavolo non portano solo posizioni contrastanti, ma ferite emozionali, storie interrotte, silenzi pesanti. Tra loro c’è il mediatore, figura discreta e accogliente, non un giudice o un arbitro, ma un architetto invisibile di ponti. La mediazione è diventata, grazie alle recenti riforme, una vera rivoluzione nella cultura della giustizia, che sposta l’attenzione dal contenzioso alla crescita personale e relazionale.

Nei miei libri argomento il nuovo volto della giustizia grazie alla mediazione che  non è più un mero strumento per alleggerire il carico dei tribunali, né una tecnica fredda per chiudere rapidamente le controversie. È un percorso che mette al centro l’ascolto profondo e il rispetto reciproco, accogliendo il conflitto come occasione di trasformazione e arricchimento. Le differenze tra punti di vista non sono più scarti o problemi da eliminare, ma risorse preziose dalle quali può nascere nuova comprensione. In questo contesto, il mediatore è una presenza umana capace di muoversi con delicatezza tra emozioni spesso forti, aiutando le parti a riconoscere sia le loro ombre sia le loro luci. Questa nuova visione si ispira a una metafora potente: il kintsugi, l’antica arte giapponese di riparare ceramiche rotte con oro. L’arte non nasconde le crepe, ma le rende un pregio unico e decorativo. Allo stesso modo, la mediazione trasforma le ferite del conflitto in valore e rafforza le relazioni apparentemente irrimediabilmente spezzate. Questo approccio ha un impatto profondo sulla società, perché pone le basi per una convivenza più consapevole e resiliente, favorita da una cultura del dialogo e della riparazione.

Se la mediazione non è una alternativa, tra le tante,  ma una necessità che risponde a una richiesta profonda di umanizzazione della giustizia che nulla ha a che fare con la vendetta e che mira a “instaurare equilibri nuovi e superiori”, come si diventa mediatori e quali competenze si devono possedere?

La crescita personale del mediatore è fondamentale in questo processo. Non basta la formazione tecnica: serve una profonda attenzione al proprio benessere, alla resilienza e all’etica, affinché la mediazione non diventi solo uno scambio formale ma un’esperienza autentica di rigenerazione. Sebbene vi siano rischi di pratiche scorrette o di mediazioni vuotate di significato, chi esercita con responsabilità vigila sulla qualità e sulla cura della relazione.

Se la mediazione, prendendosi cura dell’uomo, rappresenta la risposta più radicale, e forse risolutiva del problema Giustizia, per migliorare la società costruendo le basi di un nuovo umanesimo, la mediazione potrebbe rappresentare uno strumento per accorciare i tempi della giustizia?

Certamente rappresenta un’opportunità. La mediazione è un vero e proprio viaggio interiore che richiede coraggio, empatia e apertura mentale alle parti coinvolte. Non è una scorciatoia, ma un’opportunità per esplorare le radici profonde dei conflitti e trovare insieme soluzioni che vanno oltre la semplice risoluzione pratica. A chiunque si trovi di fronte a una frattura personale, la mediazione offre così la possibilità di scoprire che proprio lì, nel punto più fragile, può iniziare una rinascita, dove la luce entra e il valore si rivela.

Parecchie sono state le critiche mosse all’introduzione di questa nuova figura, soprattutto da parte degli avvocati, critiche che vanno dai dubbi di incostituzionalità, alle difficoltà pratiche di attivare gli organismi, dalla scarsa tutela dei confini professionali al pericolo di intaccare interessi e diritti di categoria. Tuttavia, dal momento che la mediazione è stata riconosciuta e legittimata, gli avvocati, pur avanzando dubbi e pur sottolineando alcune criticità, hanno dichiarato che rispetteranno la legge e metteranno a disposizione le loro competenze nella mediazione. Quale potrebbe essere iI nuovo ruolo dell’avvocato nell’epoca della mediazione?

Nel sistema giuridico tradizionale, il diritto è strettamente legato al processo, dove la soluzione dei conflitti passa per le aule di tribunale, con toni agonistici e scontri spesso duri. Tuttavia, questo paradigma si sta trasformando profondamente grazie all’avvento e alla diffusione della mediazione, che apre la strada a un cambio culturale fondamentale. Non si tratta solo di un nuovo strumento di risoluzione, ma di una diversa filosofia che mette al centro i bisogni concreti delle persone, superando una visione statalista e verticalista del diritto.

In questo contesto, cambia radicalmente anche il ruolo dell’avvocato, che non è più solo un combattente legale ma diventa un professionista della prevenzione e un facilitatore di dialogo. L’avvocato deve orientare il cliente verso il metodo più adeguato e sostenibile per risolvere il proprio conflitto, che può essere la mediazione, la conciliazione o, se inevitabile, il processo. Questo richiede una nuova mentalità, dove la parola torna alle parti e non è più delegata totalmente al difensore, un cambiamento che implica un’acquisizione di competenze relazionali ed empatiche.

Tale trasformazione è urgente poiché introduce una dimensione più sociale e responsabile nella professione forense. L’avvocato poliedrico lavora infatti per costruire sistemi di relazioni efficaci tra le parti, capaci di evitare dispute future. La sua creatività non si misura più solo nella vittoria processuale, ma nella capacità di promuovere giustizia anche senza processo, attraverso l’ascolto umano e l’autonomia dei clienti.

La mediazione richiede, dunque, un’adeguata formazione continua, che coniughi capacità tecniche con qualità personali come l’etica, la comunicazione e la gestione delle dinamiche emotive. Questo comporta anche un impegno etico a garantire una mediazione qualificata, evitando pratiche superficiali o strumentali. Inoltre, la mediazione contribuisce efficacemente a ridurre il sovraccarico degli uffici giudiziari, promuovendo una giustizia partecipativa e più umana.

L’ epistemologia su cui si basa fonda le sue radici nella Giustizia Fiduciaria e attinge da principi anche teologici. Il saggio che ho curato “Il senso della mediazione dei conflitti: tra diritto, filosofia e teologia” richiama alla memoria anche esempi storici e simbolici: dal gesto di Giuseppe che riconosce i fratelli, alla saggezza della metafora dei porcospini di Schopenhauer, al dialogo di Federico II con il sultano Al-Kamil durante la Sesta Crociata, che scelse la via della mediazione rispetto alla guerra”.

In conclusione, la mediazione invita a riflettere profondamente, a fermarsi e a maturare una saggezza fatta di valorizzazione delle relazioni umane e di competenza insieme, indicandoci una via per costruire una società più giusta, umana e consapevole.

Rappresenta una rivoluzione silenziosa ma profonda nel modo di concepire il diritto e la giustizia. Per chi è disposto a intraprendere questo percorso, essa offre non solo una risoluzione più soddisfacente e duratura dei conflitti, ma anche l’opportunità di costruire una società più giusta, resiliente e capace di valorizzare la ricchezza delle relazioni umane e la pace sociale.

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