Italiani per forza (?)

La ricerca scientifica sceglie, non di rado, occasioni come luoghi informali in cui incontrare specialisti, sorta di agorà, dove si confrontano posizioni, studi, ricerche, proposte. È la ragione per cui oggi ripropongo, attraverso un libro, che sembra provocatorio, ma è invece pacificante, Italiani per forza, il tema fondante sulle cause della condizione endemica di squilibrio fra Nord e Sud d’Italia. Pina Travagliante, anima costante di questa agorà virtuale, in un recente articolo -“È tutta un’altra storia”-, nel presentare il volume di G. De Marchi – F. Femia, Il Regno Unito d’Italia (Tutta un’altra storia), richiama una questione, quella della genesi del nuovo Regno d’Italia. Gli interventi che ne sono seguiti mi hanno indotto a ripescare il volume del 2021 (160° dell’Unità italiana) di Dino Messina, Italiani per forza. Le leggende contro l’unità d’Italia che ora di sfatare, (Solferino), in cui si scrive, in esordio:«C’era un grosso sasso spaccato in uno dei campi della proprietà di mio nonno materno»: quel sasso diviene la rappresentazione iconica di due diverse «versioni domestiche della storia patria», una, narrata attraverso le gesta di quei «banditi entrati nella grande storia negli anni Sessanta dell’Ottocento», l’altra, raccontata attraverso le azioni di un «piccolo gruppo di patrioti, professionisti e artigiani di un borgo sperduto» della Calabria. Quel sasso, assunto a simbolo della necessità – storica e storiografica – di separare i fatti dalle ideologie e dalle credenze, serve anche a noi che, proprio con l’interrogativo posto in parentesi nel titolo di questo breve scritto, accarezziamo l’idea di un Risorgimento non sbilanciato a favore del Nord d’Italia, ma visto con favore e sostenuto anche dal Mezzogiorno.
Il tema incontra, in questo frangente epocale, l’interesse nazionale, non solo di storici specialisti, ma di politici, economisti, sociologi, perché riguarda il problema dell’Italia, e riguarda il problema dell’Italia in contesto europeo. Si tratta di una condizione critica che investe la comunità europea, non solo italiana, e vede interessati i governi a venire a capo della irrisolta situazione di ritardo meridionale, che investe, con la propria cronica arretratezza, l’economia nazionale ed europea.
Gli italiani sono ancorati, più nell’immaginario che nella realtà delle ricerche documentate, a due versioni/visioni, speculari e contrarie, del processo di unificazione nazionale, visioni che scelgono, ideologicamente e faziosamente, di credere ad un settentrione italiano danneggiato da un meridione parassitario, e, reciprocamente, ad un Sud emarginato e vilipeso da un Nord accentratore e sfruttatore. Al di là delle opzioni, in molti casi poco, o affatto, accreditate dalla ricerca, oltre gli stereotipi resistenti e l’immaginario diffuso, il problema del dualismo economico esiste, e la forbice Nord-Sud non smette di tagliare. il libro del giornalista Messina condensa interrogativi tradizionali: che tipo di società erano quelle che si incontrarono nel 1860? Quali le differenze di reddito, di alfabetizzazione, di qualità della vita? E i governi centrali post-unitari, davvero, danneggiarono il Mezzogiorno? E il Sud trasse beneficio dall’unificazione nazionale?
Una questione schiettamente storiografica, però, incrina la linearità (posto che esista nella ricostruzione storica) delle risposte e delle stesse domande. Nel corso degli ultimi quindici anni, nuovi assunti metodologici hanno movimentato la storiografia sul Risorgimento, e, più o meno esplicitamente, anche la lettura dello stato-nazione che nasce nel 1861, riaprendo cantieri di studi che, nel tardo Novecento, erano diventati stanchi e ripetitivi. La comunità scientifica ha accolto con favore la svolta, tuttavia, avverte Macry (Masse, rivoluzione e Risorgimento: appunti critici su alcune tendenze storiografiche, 2014), quell’apprezzabile sforzo di innovazione e revisione sta diventando precocemente un paradigma. Ma i paradigmi sono un’arma a doppio taglio: formano e indirizzano la conoscenza, ma possono anche congelarla. Vengono assunti come un dato di fatto e diventano più simili a una sorta di “senso comune storiografico”. Rischiano di trasformarsi, da agenda di lavoro, in una catena di citazioni, le quali, rafforzandosi a vicenda, finiscono per sottovalutare il nodo prioritario della consistenza analitica e documentaria di un’ipotesi storiografica, ribadendone piuttosto il valore ermeneutico, e magari costruendo su di essa ulteriori ipotesi: «produzione di interpretazioni a mezzo di interpretazioni». Quel che si perde è la possibilità di verificare empiricamente il percorso conoscitivo. La materia scotta su tutti i fronti, non solo su quello della obiettività interpretativa, ma anche su quello, scivoloso e ambiguo, degli strumenti di indagine: il metodo, ancora, ovvero, la logica con cui si pone mano alla ricerca, e per la quale si scelgono alcuni strumenti e non altri.
Miti da sfatare
Il Risorgimento, viene presentato, in un altro volume di Paolo Macry (Unità a Mezzogiorno, 2012), come un campo di forti tensioni, un’epopea lacerata. Ciò che rende particolarmente intricati e duraturi quei conflitti è la loro matrice territoriale e il fatto che si coagulino attorno alla vistosa diversità politica, strutturale e culturale fra regioni settentrionali e regioni meridionali. Quella sorta di confine interno costituisce il cuore stesso dei problemi del Risorgimento. Nata fra Torino e l’Europa, l’unità italiana si compie a Mezzogiorno. Molto c’è ancora da fare per giungere a una sua valutazione spassionata, soprattutto per quanto riguarda il ruolo del Mezzogiorno. Com’è possibile che il Regno delle Due Sicilie si sia liquefatto davanti a mille volontari guidati da un pittoresco generale in poncho e camicia rossa? Che parte hanno, negli avvenimenti, le iniziative delle popolazioni meridionali o, piuttosto, gli errori dell’élite borbonica? E cos’ha significato, per la storia lunga del paese, la fusione di realtà molto diverse come il Nord e il Sud? Il Risorgimento – la sua lettura corretta – rimane un argomento primario dell’agenda politica italiana.
Dino Messina, che con lo storico Macry discute a lungo per scrivere il suo libro, mette insieme, in una sorta di summa della storiografia meridionalista, in riferimento ai preparativi dell’unità italiana, studi e ricerche approfonditi e diversificati sull’argomento, scritti da più studiosi specialisti, e accorpa studi storici vari come un giornalista può, ma come difficilmente potrebbe fare uno storico, avventurandosi in una presentazione di ‘studio sugli studi’.
L’obiettivo dell’Autore è quello di demistificare, smontare facili stereotipi, falsi e non documentati giudizi sull’atto fondativo della nostra nazione, attraverso il rimando continuo alla letteratura critica di riferimento e a fonti prodotte dalla più accreditata storiografia specialistica. La tematica Nord-Sud è impastata, infatti, di luoghi comuni, pretesto per battaglie ideologiche, polarizzata fra neo-borbonici e fondamentalisti unitari, e l’Autore sa districarsi in quella “guerra della memoria” che non giova alla chiarezza. Così, l’impresa dei Mille viene puntualmente ricostruita nei suoi eventi decisivi, nel quadro di una società certamente divisa, ma anche a larga maggioranza consenziente verso la spedizione di Garibaldi. Messina è attento a inserire il fragile Regno delle due Sicilie nel grande gioco europeo, e non nasconde il ruolo della camorra e della mafia al battesimo dell’Unità. Non criminalizza i briganti, ma al tempo stesso non li giudica eroi di una causa nazionale perduta. Ridimensiona il numero leggendario dei briganti massacrati dagli unitari secondo le ricostruzioni neo-borboniche. Fa parlare i documenti sui fatti criminosi di Pontelandolfo e Casalduni, comuni incendiati dai soldati del generale Cialdini, il 14 agosto 1861, come rappresaglia per la strage dei 41 militari uccisi dai briganti e dalla popolazione. Qui si dimostra, con i documenti del lungo lavoro di Silvia Sonetti, che i morti non furono 400 o 1.400, smentendo la vulgata di parte, ma 13, e, tra questi, si contano uccisioni per vendette private tra gli stessi pontelandolfesi. Qualche passaggio, su una piccola storia, diventata grande pretesto di rivendicazioni identitarie, in cui persino le istituzioni furono coinvolte, scrive Silvia Sonetti: “[…] in questo caso il mito dell’eccidio, pur smentito da tutte le ricerche documentate e da ogni fonte archivistica, ha travalicato il limite dell’invenzione e si è trasformato in una storia vera, fino al punto da essere accreditata anche dalle istituzioni” (L’affaire Pontelandolfo , 2020). Ancora, si fa chiarezza sul presunto eccidio di Fenestrelle, situazione definita da certa pubblicistica d’assalto, come una condizione da lager, in cui persero la vita decine di migliaia di soldati dell’ex esercito borbonico, mentre i documenti esibiti dagli storici riducono a quaranta il numero delle vittime, in cinque anni, dimostrando che queste cifre più che un genocidio etnico spesso nascondono vittime dovute a delitti di camorra, che da tempo si era infiltrata nell’esercito borbonico.
Questo lavoro di Messina, dunque, si presenta particolarmente utile proprio perché rivolto al largo pubblico, con linguaggio chiaro, prezioso antidoto al successo di una letteratura scandalistica e faziosa, che ha successo a Nord come al Sud, perché fa leva sull’autodifesa dell’identità meridionale, consentendo derive pericolose che alimentano la lacerazione del quadro unitario nazionale. Una narrazione basata sulla manipolazione delle fonti e su un uso abile di Internet, per influenzare il pubblico meno attrezzato culturalmente, chiama gli storici a una più attiva militanza, anche nella ricostruzione scientifica dei singoli avvenimenti, attorno a cui si sono alimentate falsità.
Che in Italia, al momento dell’Unità, la ricchezza fosse a livelli simili non è del tutto sbagliato, ma le differenze strutturali, che produrranno poi percorsi divergenti, erano sostanziali: nelle infrastrutture, nell’istruzione popolare di base (percentuale di analfabetismo), nella propensione all’industrializzazione. Per esempio, si cita esemplarmente, a favore di una disposizione imprenditoriale al passo con lo slancio industriale, il primo treno della penisola (1839), tratta Napoli-Portici, voluto da Ferdinando II, che fu impresa tanto eccezionale da meritare la visita dello Zar Nicola I nel 1845, del Papa Pio IX nel 1849, dello stesso Garibaldi nel 1860. Con l’Unità d’Italia, si pose il problema di cosa fare di tale grande polo industriale napoletano, che impiegava il doppio dei lavoratori degli stabilimenti genovesi dell’Ansaldo. Lo stabilimento ferroviario di Pietrarsa, però, non era un’eccezione nel panorama industriale napoletano prima dell’Unità. Ad esso, annota Piero Bevilacqua nella sua Breve storia dell’Italia meridionale (2005), vanno aggiunti il cantiere di Castellammare con 1.800 operai e l’arsenale annesso al porto militare di Napoli con 1.600 dipendenti; ancora, le ferriere di Mongiana in Calabria che impiegavano circa 1.000 lavoratori: soprattutto nell’area della capitale del Regno, prima dell’Unità, si era assistito a uno sviluppo dell’industria metalmeccanica per la produzione di attrezzi agricoli, torchi, caldaie. Tuttavia, per comprendere il mancato slancio economico e industriale, vanno considerati alcuni limiti oggettivi, riassunti da Bevilacqua in tre indicatori: la mancanza di un ampio e preparato ceto imprenditoriale; la ristrettezza del mercato interno; la sfavorevole collocazione geografica di territori lontani dai Paesi capitalistici avanzati. A tali limiti interni alla giovane nazione si aggiungono le difficoltà dell’Italia di competere con i Paesi europei industrializzati: la differenza vera, ai tempi dell’Unità, era tra la penisola tutta e il resto d’Europa (A. Gerschenkrohn, Il problema storico dell’arretratezza economica, tr.it. 1974).
Le incursioni tematiche sopra esposte quali elementi complessi in cui si inserisce la lettura del Risorgimento italiano, spingono a contenere entro linee di massima cautela interpretativa le ragioni del Nord e del Sud, al momento dell’Unità, e fino ad oggi.
Cercare nell’istruzione, e di qualità, la sintesi dei problemi è fuorviante, così come lo sarebbe se immaginassimo uno sviluppo produttivo non ancorato ad una solida crescita culturale ed educativa. Tuttavia, sembra che cercare solo nel binomio istruzione/sviluppo la causa del mancato decollo del Sud significa impoverire le ragioni di indagine, significa usare il paradigma della semplicità e non quello, più appropriato, della complessità: dei percorsi, degli arresti, degli intrecci, degli arretramenti, ecc. Nel senso che fra istruzione e sviluppo deve entrare in gioco, e intrecciarsi, la dimensione politica ed economica, degli investimenti: nei servizi alla persona, per i minori, nelle strutture di supporto alle famiglie, nella viabilità, nei trasporti, nelle politiche giovanili, perché si allontani il dramma del facile reclutamento nella manovalanza criminale.
Ecco, sì, se è vero che non dobbiamo indulgere in posizioni revansciste, recuperando al Mezzogiorno d’Italia competenze, intelligenze, genialità, che nessuno nega, è anche vero -e necessario- comprendere, con strumenti di analisi e occhiali adeguati, le ragioni profonde, per cui il Sud, nei fatti e nell’immaginario mondiale, resti arretrato. La popolazione decresce e invecchia, i giovani abbandonano i propri territori, i lavoratori migrano in massa.
In quanto ricercatori, e storici, dobbiamo fare le domande giuste al passato, e far parlare questo passato utilizzando categorie, termini, linguaggi, adeguati e corretti.
Le ragioni di un Sud rimasto indietro (E. Felice, Perchè il Sud è rimasto indietro, 2013) non stanno in quel processo distorto di un Risorgimento unitario che ha penalizzato strumentalmente le forze e le risorse meridionali, quanto per l’incapacità delle classi dirigenti meridionali, che hanno dirottato le risorse verso la rendita piuttosto che verso usi produttivi, ritardando fatalmente lo sviluppo. Il recupero potrebbe avvenire a condizione di modificare la società, spezzando le catene socio-istituzionali che la condannano all’arretratezza. Ma vi è anche chi ritiene il Mezzogiorno, oggi più che in passato, al centro del piano di ricostruzione dell’Italia, (G.Viesti, Centri e periferie. Europa Italia e mezzogiorno dal XX al XXI secolo, 2021), a condizione che una concreta azione politica dia ruolo al Sud nell’economia nazionale.