Teatro

“La vita è sogno”, al Brancati un miracoloso melodramma senz’orchestra

Un melodramma senz’orchestra in cui è la parola stessa a farsi musica, creando un’atmosfera magica grazie all’affabulazione degli attori, a una drammaturgia attualissima e … all’intelligenza artificiale.

Parliamo de La vita è sogno (La vida es sueño), dramma in versi scritto nel 1635 da Pedro Calderon de la Barca e che, tradotto, adattato e diretto da Giuseppe Dipasquale, sarà in scena fino al 26 marzo nella sala Brancati per il Teatro della Città – Centro di produzione teatrale.

Nella pièce il principe Sigismondo, nato mentre la madre moriva di parto, viene imprigionato in una torre dal padre, Basilio, re di Polonia e astrologo, che ha letto nelle stelle un destino di violenze compiute dal figlio. Questo cresce in catene, istruito da un ministro del padre, Clotaldo, fin quando il Re non lo mette alla prova. Lo fa drogare e portare a Palazzo ordinando che al suo risveglio gli si riveli chi è. Sigismondo reagisce con rabbia: feroce persino con Clotaldo, oltraggia il cugino Astolfo, insidia la dama Rosaura, uccide un servo. E Basilio lo fa nuovamente drogare e riportare nella Torre, a macerarsi nel dubbio: i giorni a Palazzo erano sogno o realtà?

Sarà un inaspettato finale, tra sommovimenti e rivoluzioni, a spingere il Principe a “Trionfare su se stesso”, indicando il sogno come suo maestro e giungendo alla conclusione che “Tutti sognano ciò che sono”.

Innumerevoli i temi contenuti nel testo dell’uomo considerato l’ultima grande voce del “secolo d’oro” spagnolo. A cominciare da quelli che animarono la vita stessa dell’autore, condensati nel titolo della sua prima commedia, del 1623: Amor, honor y poder. Calderon fu infatti guerriero dall’avventurosa esistenza, con un figlio fuori dal matrimonio, e prolifico autore teatrale – più di centodieci lavori nell’arco della vita – ma, a cinquant’anni, s’avvio a quella carriera ecclesiastica che gli avrebbe valso l’appellativo di poeta dell’Inquisizione.

La definizione si deve a Giosuè Carducci, che nel 1869, nel teatro Brunetti di Bologna, vide La vita è sogno interpretata dalla compagnia di Ernesto Rossi e ne scrisse sul quotidiano emiliano L’Indipendente bollandolo come un Amleto abortito.

Un giudizio probabilmente dettato dall’avversione del poeta italiano per i romantici, visto che il fascino del testo, esaltato trent’anni fa da Luca Ronconi, torna adesso, nella fresca rivisitazione di Dipasquale, in tutta la sua attualità.

E umanità.

Non è un caso che il regista abbia voluto che a impersonare Basilio il sovrano e Sigismondo il principe, fossero due straordinari attori che rispondono ai nomi di Mariano e Ruben Rigillo, padre e figlio.

Un rapporto quest’ultimo centrale nello svolgimento della vicenda: “Sei me, rinato” è una delle battute cardine del dramma.

Melodramma senz’orchestra, dunque.

Quasi non fossimo ancora a quel recitar cantando nato alla fine del Cinquecento e che, richiamandosi alla tragedia greca, condusse agli spettacoli operistici e infine all’opera buffa. Caratterizzata quest’ultima da personaggi in tutto e per tutto simili allo scudiero Clarino, che consentono di far virare il dramma in commedia. A lui tutto è concesso, dalla trombetta alle licenze poetiche. E il pubblico lo ama.

Ma tutti gli attori, con indosso i sontuosi i costumi di Dora Argento e sostenuti dalle emozionanti musiche di Germano Mazzocchetti, sono stati acclamati dagli spettatori.

A cominciare, ovviamente, da quel mostro sacro del teatro italiano che è Mariano Rigillo, per proseguire con Angelo Tosto, impeccabile nei panni di Clotaldo, con l’intenso Ruben Rigillo, con Filippo Brazzaventre (che interpreta con efficacia più ruoli), Alessandro D’Ambrosi (Clarino), Valerio Santi (Astolfo) e Federica Gurrieri (Stella).

Un discorso a parte merita l’attualissima figura di Rosaura.

Attento è, Dipasquale, nel definirla ed esaltarla: uomo e donna, mostro come quell’incrocio tra cavallo e aquila sul dorso del quale irrompe sulla scena.

Un crocevia di suggestioni d’ogni tempo diventa così lo spettacolo: rivivono Pulci e Ariosto – in compagnia della J. K. Rowling di Harry Potter – con l’ippogrifo e con Astolfo. E Goldoni con la multiforme Rosaura, nome della protagonista di una trentina di testi che fecero grande la Commedia dell’Arte.

Il miracolo è che quest’esplosione di fantasia trovi concretezza, perché a dipingere l’essenziale scena progettata dallo stesso regista, sono le fantasmagoriche immagini di realtà aumentata ottenute da Francesco Lopergolo grazie all’intelligenza artificiale.

Sulle pareti nude appaiono così personaggi fantastici, torri, regge, eserciti in marcia, boschi. E quadri d’epoca – a cominciare da Las Meninas di Diego Velázquez – e ancora porte e specchi virtuali in cui gli attori possono rimirarsi.

E tutto si fa sogno.

Le foto di scena sono di Dino Stornello

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