Teatro

Jeli il pastore, Verga, il Piccolo, la poesia e i ragazzi “quatteroti”

È quando le parole diventano musica, mutando le singole emozioni in un armonico coro, che si può parlare di poesia. Se a questo s’aggiunge il dramma, l’azione scenica, abbiamo il teatro, parola greca che ha nella sua radice un verbo che significa scrutare, esplorare.

Soprattutto se stessi, ponendosi delle domande.

Come accade assistendo a Jeli il pastore, che la drammaturga Lina Maria Ugolini ha tratto dall’omonima novella di Giovanni Verga e che il regista Gianni Salvo ha magicamente mutato in uno spietato specchio in cui riflettersi. Interrogandosi, per esempio, su quanto la nostra sia lontana dalla naturalissima, elementare Vita dei campi descritta da Verga nel 1880.

“I ragazzi non apprezzano la poesia di queste rappresentazioni” mi dice rattristato uno dei principali animatori culturali della Sicilia orientale al termine dello spettacolo. Rispondo che non si può apprezzare ciò che rimane sconosciuto e che occorrerebbe condurre per mano i ragazzi quatteroti in quel tempio del teatro che è il Piccolo, mostrando loro le locandine dei meravigliosi lavori di autori sconosciuti o quasi, con cui, dal 1966 – quasi settant’anni, ormai -, un gruppo di giovani aveva saputo stupire la città.

Uno stupore che si perpetua ancor oggi, per le scelte di questa messinscena.

Da tempo la Ugolini scompone e ricompone i testi verghiani, donando loro nuova linfa, traendone ballate e canzoni. E con queste viene impreziosita la trama del racconto.

Jeli, il guardiano di cavalli, aveva tredici anni quando conobbe don Alfonso, il Signorino”.

Già nella prima frase della novella ci sono tutti i protagonisti della tragedia prossima ventura, mentre, narrato da un coro greco accordato alle note dello zufolo di Jeli (iuh! iuh! iuh!), l’affastellarsi degli eventi si snoda tra gli impervi camminamenti della articolata e funzionale scenografia di Oriana Sessa, autrice anche dei costumi.

Domina la scena, Giovanni Arezzo, nei poveri panni del protagonista, mentre sempre elegantissimo è il signorino Don Alfonso (Luca Fiorino).

E quando Jeli balla (coinvolgenti le musiche di Pietro Cavalieri) con la sua Mara occhi di more, impersonata da Maria Chiara Pellitteri, l’intero teatro si riempie di energia e sensualità.

Guidato dalla corifea ‘Gna Lia – un’inappuntabile Anna Passanisi – il coro (Giovanna Mangiù, Maria Rita Sgarlato, Lucia Portale e Lorenza Denaro), nel sottolineare gli accadimenti, resta protagonista, mutandosi anche in dolente riunione di prefiche o in convegno di starnazzanti comari. Tutti gli attori – da citare ancora Vincenzo Ricca – hanno ricevuto i calorosi applausi dal pubblico, rimasto colpito dalle affascinanti trovate registiche di Gianni Salvocavalli, bande musicali, ruote e astri in movimento, ceste che diventano megafoni -, che culminano nella commovente scena del matrimonio in bianco.

Del tutto apocrifa, ma straordinariamente efficace, la figura di don Piricocu lu puparu, reso in scena con maestria da Aldo Toscano, impegnato anche a disegnare la figura di massaro Agrippino, padre di Mara.

Don Piricocu, sorta di one-man-puppet-show, racconta con le sue marionette come Salomè, quella dei sette veli, avesse “ammizzigghiatu lu re” ottenendo su un piatto d’argento la testa di Giovanni Battista.

E, infine, poiché questo spettacolo ti costringe a porti delle domande, c’è da chiedersi: Gesualdo Bufalino pensava che a liberarci dalla mafia sarebbe stato un esercito di maestri elementari, ma siamo certi che una legione di teatranti non potrebbe contribuire?

Picciotti e picciutteddi viniti cca, taliati. Fa’ti nu circulu tunnu davanti a mia…” dice don Piricocu.

E se fosse questa l’esca per coinvolgere emotivamente quei ragazzi quatteroti? Per convincerli ad assistere – nel religioso silenzio che si deve a un rito e, ovviamente, abbandonando al loro destino i cellulari – a uno spettacolo fatto di parole, musica, azione, emozione?

Le foto di scena sono di Dino Stornello

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