Teatro

Giustizia, pupi e “quel quadro” nella “Storia semplice” che Anfuso ha tratto da Sciascia

A rappresentare la chiave di lettura di Una storia semplice di Leonardo Sciascia, spettacolo che, adattato e diretto da Giovanni Anfuso, sarà in scena fino a domani nel Teatro Verga di Catania, non è tanto “quel quadro”, bensì le lettere di Garibaldi e Pirandello agli avi del diplomatico trovato morto che è al centro del giallo.

In tanti si erano chiesti perché nel breve romanzo di appena ventuno pagine, uscito nel novembre del 1989 quando il suo autore era appena scomparso, lo scrittore di Racalmuto non avesse mai citato direttamente la caravaggesca Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi rubata nell’ottobre di vent’anni prima da una chiesa di Palermo. E avesse invece sottolineato come l’ambasciatore in pensione Giorgio Roccella di Monterosso fosse tornato in Sicilia per ritrovare le missive dell’eroe dei due mondi – incapace di compiere giustizia quando raggira i contadini siciliani che lo seguono promettendo loro terre e pace in cambio dell’Unità d’Italia – e del premio Nobel agrigentino del “pupi siamo…”. Ossia di quelle marionette mosse da manianti alle quali è un parraturi a mettere in bocca stentoree parole.

Ed è grazie all’accurato lavoro del regista sul testo sciasciano che, dalla drammaturgia, emergono come preponderanti i temi della giustizia – d’altronde il libro si apre con una citazione da Friedrich Dürrenmatt sulle “… possibilità che forse ancora le restano” – e della tendenza a ridurre i cittadini a pupi, quelle marionette che la scrittrice Marguerite Yourcenar definì “Sublimi nella loro ingenuità”.

La vicenda, che si sviluppa in un non meglio identificato centro della Sicilia, viene narrata in maniera singola e corale dagli attori, a cominciare da uno straordinario Giuseppe Pambieri, con accanto Paolo Giovannucci e Stefano Messina ma anche Davide Sbrogiò, Liliana Randi, Carlo Lizzani, Geppi Di Stasio, Marcello Montalto, Luigi Nicotra e Giovanni Carpani.

Sul palcoscenico, mutato dalla sapiente scenografia di Alessandro Chiti in una sorta di cartiglio da cuntastorie, il regista fa muovere i personaggi proprio come marionette, che anticipano, in terza persona, cosa stanno per fare, per dire.

Pupi sono. Certo, al posto delle armature indossano costumi (di Isabella Rizza), ossia uniformi e tonache. Ma vestono anche, semplicemente, i propri ruoli: l’eroico magistrato, l’incorruttibile questore, il professore da tutti rispettato.

Essere e sembrare. “Pupi siamo. Ognuno poi si fa pupo per conto suo. Quel pupo che sa o che crede di essere”. È l’omaggio di Sciascia al genio agrigentino, da lui considerato un “padre”.

La telefonata arrivò alle 9 e 37 della sera del 18 marzo, sabato, vigilia della rutilante e rombante festa che la città dedicava a san Giuseppe falegname”.

Roccella, per anni vissuto fuori dall’Italia e tornato nella propria villa poco distante dal centro abitato, chiama la Polizia per mostrare “una cosa”. Il Commissario annuncia di non voler esser disturbato fino alla fine della Festa e chiede ai suoi uomini di recarsi nella villa l’indomani. Quando troveranno il diplomatico morto, con un foro alla tempia e, accanto, una pistola e un biglietto.

Su-i-ci-dio” suggerisce il Questore al Procuratore. Ma la tesi, alla quale si oppone il colonnello dei Carabinieri, viene smontata dalla testimonianza del professor Carmelo Franzò, vecchio amico di Roccella e stimato docente. E la “storia semplice” s’ingarbuglia.

Quando Sciascia scrisse questo romanzo l’Italia veniva da un decennio di misteriosi attentati: da piazza Fontana a Peteano, da piazza della Loggia all’Italicus, alla Stazione di Bologna, da via Fani al Dc9 di Ustica. In Sicilia, intanto, la mafia uccideva Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Ciaccio Montalto, Chinnici, Fava, Montana, Cassarà, Saetta, Rostagno. Una strage infinita, con infiniti misteri e depistaggi. E, come scrisse proprio Sciascia ne Il giorno della civetta, tante “cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità”.

Sul palcoscenico, lo spettacolo fa rivivere la medesima ansia, lo stesso insoddisfatto desiderio di giustizia, lo scoraggiamento che, nel 1989 (e probabilmente ancor oggi), si provava leggendo quell’esile libro.

Ci si emoziona quando le luci di Pietro Sperduti tingono i rappresentanti delle Istituzioni di bianco, rosso e verde. Una riprova che il rigoroso congegno teatrale messo a punto da Anfuso funziona come un orologio e che gli attori non fanno mai perdere, grazie anche alle musiche di Paolo Daniele, ritmo al racconto.

Un dramma serrato, mai banale. Fino all’ultimo, amarissimo, strappo alla verità: i pupi in divisa hanno una valenza simbolica altissima e dunque devono continuare a incarnare l’eroismo anche quando sono corrotti. Così, l’uomo della Volvo non potrà che esclamare “E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?”. Chiude, Giuseppe Pambieri, con una frase del poeta francese dell’Ottocento Villiers de l’Isle-Adam scelta da Sciascia come epitaffio da incidere sulla propria tomba: “Ce ne ricorderemo di questo pianeta

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