Economia

Trump vince la sfida dei dazi: l’Europa firma e arretra

È Donald Trump a uscire vincitore dalla trattativa sui dazi tra Stati Uniti e Unione europea. Con l’accordo siglato il 27 luglio, l’Europa accetta una tariffa uniforme del 15% su circa il 70% delle sue esportazioni verso gli USA, rinuncia a ritorsioni immediate e si impegna a versare 600 miliardi di dollari in investimenti sul suolo americano entro il 2029. Washington, in cambio, congela la minaccia di dazi al 30% e mantiene vantaggi su aerospazio, energia e difesa. La formula ufficiale è “compromesso tecnico”, ma nei fatti si tratta di una resa politica. Dopo mesi di pressing dalla Casa Bianca e dopo il gelo diplomatico esploso in primavera, Bruxelles si è presentata al tavolo divisa, con poche armi e nessuna alternativa credibile. La Francia voleva resistere, la Germania ha scelto la linea del dialogo. L’Italia ha mediato, puntando a limitare i danni. Il risultato: una tregua a condizioni dettate da Washington. La nuova tariffa al 15% riguarderà settori chiave come farmaceutica, automotive, elettronica, meccanica e beni di consumo. Vengono esclusi – con dazi azzerati – gli aeromobili e i componenti aerospaziali, da sempre terreno di scontro tra Boeing e Airbus. Restano in vigore invece i dazi al 50% su acciaio e alluminio, con una “commissione bilaterale” incaricata di valutarne un’eventuale riduzione a partire dal 2027. A rafforzare la posizione americana è la cosiddetta clausola di salvaguardia: se l’UE non rispetterà gli impegni di investimento o rallenterà l’apertura del mercato energetico e tecnologico, gli Stati Uniti potranno ripristinare dazi aggiuntivi senza consultazione preventiva. Il premier francese François Bayrou ha parlato di “un cedimento senza contropartite”. La presidente del Consiglio italiana Meloni ha difeso la scelta come “un atto di responsabilità per salvaguardare il commercio e i posti di lavoro”. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha preferito il pragmatismo: “Meglio una regola imperfetta che una guerra commerciale”. Ma le associazioni industriali europee sono in allarme. Confindustria stima un impatto negativo di almeno 27 miliardi di euro all’anno, soprattutto per le piccole e medie imprese del manifatturiero e dell’agroalimentare. Il settore siderurgico è il più colpito: fuori dall’accordo, esposto a tariffe pesanti e senza strumenti difensivi immediati. Wall Street ha reagito positivamente, con l’S&P500 in rialzo dello 0,8% il giorno dell’annuncio. Le borse europee invece hanno chiuso miste, con perdite nel comparto metalli e nella moda. Il Dipartimento del Tesoro americano ha definito l’intesa “un passo storico verso un commercio più equo”, mentre Trump ha rivendicato il successo personale: “Abbiamo rimesso al centro l’interesse nazionale. L’Europa ha finalmente capito che non si può trattare con gli Stati Uniti da una posizione di vantaggio”. Al di là dei dettagli tecnici, l’accordo del 27 luglio segna un passaggio politico chiaro: l’Unione europea si conferma fragile, dipendente e senza una visione commerciale autonoma. In un mondo dove il potere si misura con la capacità di dettare le regole, l’Europa ha accettato di subirle. Non è un caso che, come già avvenuto con l’Iran, siano gli Stati Uniti a muovere le leve decisive: dalla diplomazia energetica alle alleanze industriali, passando per la gestione delle tecnologie strategiche, Washington si comporta da regista globale. La Casa Bianca detta i tempi, impone le condizioni, assicura vantaggi ai propri campioni industriali. Bruxelles, al contrario, sembra condannata a inseguire. L’accordo sui dazi non è solo un compromesso commerciale. È la fotografia di un equilibrio geopolitico che si è ormai spostato definitivamente. Gli Stati Uniti rafforzano il proprio ruolo di arbitro del mercato mondiale, mentre l’Unione europea si scopre debole, divisa, e priva di una strategia. Senza coesione interna e senza leve negoziali, Bruxelles rischia di trasformarsi da attore globale a semplice spettatore. Se non cambia rotta, l’UE potrebbe perdere non solo la battaglia dei dazi, ma anche il posto al tavolo delle grandi potenze. Gli Stati Uniti, invece, confermano il loro ruolo: burattinai dell’ordine mondiale, con Trump a tirare i fili.

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