Spettacoli

Marianna De Leyva ovvero la Monaca di Monza: rea dal fascino irresistibile

“La signora dal velo scuro”, liberamente tratto dal monologo “La signora”, della scrittrice catanese Antonella Sturiale, con la regia, l’adattamento e l’interpretazione di Berta Ceglie, andato in scena al teatro del Canovaccio, ha ripescato dal passato una delle donne più discusse della storia, immortalata e consegnata all’eternità da Manzoni nel suo celebre capolavoro “I Promessi Sposi”. Marianna de Leyva, più nota come la Monaca di Monza.

Personaggio discusso, di certo per la condotta, ma ancor di più per quel suo fascino innegabile, misto di bellezza, potere, seduzione che si traducono in “peccato ancor più peccaminoso” perché compiuto da una donna che, pur avendo accettato (anche se costretta) di prendere i voti, non riesce tuttavia a rinunciare alle proprie pulsioni fortissime e represse.
Ciò che viene portato in scena è l’epilogo della sua tragica vicenda, quando cioè, accusata anche di omicidio, viene condannata alla prigionia in uno spazio tanto esiguo da consentirle a malapena di respirare e ricevere cibo.
Una resa dei conti in cui Marianna non può che affrontare tutti i suoi fantasmi, dando fuoco ai rancori ma soprattutto scegliendo tra la resa, magari togliendosi la vita, e la resistenza a oltranza.
La musica che apre la pièce è meditativa, il quadro scenico è essenziale. Luci e colori accompagnano l’alternarsi di due voci, quella di un essere umano sofferente e quella della sua stessa coscienza accusatrice. Sull’altare una clessidra scandisce il tempo che dà inizio al viaggio di una condanna.
Marianna legge il suo diario. La scrittura ha un ruolo importante, è testimonianza, sorregge una memoria sviata dagli sdoppiamenti continui del delirio. “Ricordare – come scrive Berta Ceglie nelle sue note di regia -, è riportare tutto nel cuore, e il cuore è sede della memoria”.
Leggere e rileggere, diventa un porto sicuro, oltre che verifica della propria condizione mentale.
La storia narrata comincia con la sua nascita, 4 dicembre, Santa Barbara, martire vittima della tirannia del padre e termina con la sua morte, 17 gennaio, Sant’Antonio abate, padre dei monaci e degli eremiti. Numeri che richiamano date, ricorrenze e coincidenze, conferme di un destino, come suggerisce Lorenzo La Spada nei suoi appunti per la regia.
Marianna, dunque, legge e grida con rabbia le ragioni della sua condotta da empia. Con la costrizione da parte del padre a prendere i voti ha dovuto rinunciare alle gioie di un amore sano e giusto, al riconoscimento della sua maternità e poi ancora, a una vita mondana, condizioni inaccettabili per una come lei, donna ambiziosa, e con un corpo votato alla passione che non può ridursi certo alla segregazione.
Nonostante tutto Marianna decide di vivere pienamente fino all’ultimo istante, combatte prigionia e solitudine completando i tasselli assurdi della propria esistenza, ricordando momenti strazianti di lutto, ma soprattutto, e questo è un aspetto inedito, rivivendo la violenza carnale inutilmente perpetrata da un uomo a cui si sarebbe comunque data, senza bisogno di prepotenza.
Lo spettatore viene scosso dalla sua violenta invettiva contro Dio, ma anche da questo faticoso cammino in salita fra le tenebre del peccato, in cui un’anima resistente attraversa le immagini vere o deformate della memoria per poi aprirsi e lasciare finalmente spazio alla preghiera.
L’ascolto del salmo penitenziale di Davide la conduce ormai a Dio, al pentimento e alla simbolica rinuncia alla femminilità con la recisione della sua treccia bionda, ben nascosta sotto l’abito religioso.
Tale cammino che dal buio va verso la luce trova forza e significazione nell’abito creato da Giorgia Salvo per Marianna de Leyva, in cui il nero di un’anima che si è spinta alla dannazione trova un varco di luce che si fa sempre più consistente tanto da mutarsi infine in bianco alabastro, la cui trasparenza è già pace e distacco dalla vita terrena.
Il momento finale sulla scena, desiderano esprimere Antonella Sturiale e Berta Ceglie, non riguarda più solo Marianna De Leyva bensì tutte quelle donne, madri, mogli, sorelle, figlie che subiscono la violenza di uomini dispotici.
Un’occasione per riflettere, comprendere e ascoltare il pianto di ogni essere umano che abbia subito abusi e che viva in una condizione di prigionia e sottomissione fisica e mentale.

Foto di Dino Stornello

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