Cultura

Leonardo Sciascia, trent’anni dopo

Leonardo Sciascia è sempre stato un convinto assertore del principio per cui la realtà non sempre risulti osservabile in maniera obiettiva ma viceversa, assai spesso, risulti, invece, essere il frutto di un insieme inestricabile di verità e menzogna. Proprio la Sicilia, sua terra natia, risulta essere il prototipo di questa sua riflessione essendo caratterizzata da talmente tante contraddizioni da potere essere assunta a metafora di un senso di contraddizione che accomuni, financo, tutte le umani genti italiche. Un rebus che per essere compreso necessita di un approccio plurivalente ai fatti al fine di riuscire a scorgere il senso ultimo degli stessi. Proprio questa ricerca risulta essere il tratto saliente e caratterizzante dell’intra storicismo sciasciano, percezione immediata di una capacità di sapere cogliere e comprendere i tempi nel proprio senso definito. Tuttavia non solo comprendere per se ma anche, e soprattutto, comunicare agli altri il frutto di questa comprensione. Comunicare con il punto di vista dei siciliani, però, e della “sicilianitudine” basata su quella “corda pazza” che unica nel suo genere riesce a cogliere le contraddizioni e le ambiguità della Sicilia come anche, al pari, la sua forza razionalizzante. La Sicilia come oggetto di studio intesa, però, come metafora dell’Italia intera e degli italiani tutti. Ma sopra di tutto, sempre, le riflessioni sulla necessità della supremazia della giustizia e della legge uguale per tutti, legge rappresentata da quella bilancia verso cui amaramente Leonardo Sciascia volge la propria riflessione in quanto troppo spesso, ormai, veniva da lui vista come sostituita dalla “giustizia delle manette”. E proprio in questo quadro di riferimento si inserisce la riflessione nata nell’ambito della polemica sull’antimafia siciliana, polemica che vede Leonardo Sciascia quasi un intra storico “veggente” della futura stagione di “mani pulite”. Stagione fatta di quei tanto famosi oggi processi mediatici ma che allora muovevano i loro primi passi in una sterzata del regime processuale penalistico in senso sempre più inquisitorio e sempre meno garantista. La mafia, quindi, come dolorosa ed attiva coscienza di un problema ma che non giustifica mai eccezionali sospensioni delle garanzie istituzionali all’insegna di un’antimafia intesa come “strumento di potere” nel suo senso ultimo. L’antimafia però non è vissuta da Sciascia in un senso comune neutro ma viene calata e contestualizzata in quella Sicilia intreccio di coincidenze e corrispondenze che scandiscono l’ardito coerente di una realtà che torna di nuovo ad essere metafora preminente di un’Italia fatta sempre di più di situazioni da dimenticare, ove dimenticarsi ed essere dimenticati con un perenne incompiuto deciframento della realtà. In questa realtà Sciascia solleva la necessità di assurgersi il carico degli interrogativi angoscianti posti spesso proprio dai suoi personaggi al fine di indicare tramite la verità letteraria anche la via della verità giudiziaria. Il tutto con una tecnica narrativa che scorge la realtà oggettiva che è responsabilità dello scrittore denunciare e comunicare individuando di volta in volta l’ordine delle somiglianze che restituiscono un senso alle stesse ed alle cose. fu vittima della scienza come Paolo Borsellino lo fu dell’antimafia? Forse. Sicuramente il giovane Paolo, come prima di lui il giovane Ettore, ebbe ad un certo punto paura della giustizia e di se stesso in quanto giudice come Majorana la ebbe in quanto scienziato. Due vite diverse ma che ad un certo punto, in una dimensione fantastica sovrapposta, si incrociarono nella questione centrale della responsabilità. Questione che li rese entrambi simili in quanto scomparendo riuscirono a fare valere le ragioni del singolo rifiutando il ruolo che la società gli aveva imposto e passando da personaggi a “uomini soli” e da “uomini soli” a “creature”. Majorana, però, ritrova la vita decidendo di venire meno agli obblighi imposti dal suo ruolo diversamente da quanto fa Paolo Borsellino che non rifiutò mai la legge ma accettò rassegnatamente il destino che questa gli aveva preparato non nella sua esegesi filosofica ma nella sua declinazione umana. In tutto questo, però, ciò che conta è il denominatore comune tra i due, comune denominatore di una Sicilia fatta di pregiudizi e dogmi, appoggiata a figure bigotte e proterve che sfumano in un contesto fatto di rabbia e paura, la rabbia e la paura di vivere contro un muro che li condannerà a vedere le loro vite diventare sempre di più “vite da cani”. Le vicende di Ettore Majorana, come quelle di Paolo Borsellino, sono l’espressione più pura e semplice dell’intra storicismo del pensiero di Leonardo Sciascia fatto di enigmi che nessuna polizia è riuscita ancora a sciogliere. Enigmi fatti di rapporti fra gli occulti meccanismi del potere e la coscienza del singolo, fra la responsabilità individuale ed il decoro della storia. Ed in un angolo, centrale ma ossimoricamente sempre nell’ombra, il continuo ritornare di quello sfondo mitico che è la Sicilia, elemento determinante nel destino dei personaggi e nelle loro esperienze. Isola in cui l’ostinazione della vita ricopre con vittoriosa tenacia i segni e le tracce della morte che li trasforma in vita. La storia della Sicilia, in Sciascia, esprime il malessere esistenziale, l’insicurezza e l’ansia profonda di un’isola che si è fatta continente, emblema della perduta fede in un mondo ancora non comprensibile e governabile con categorie umane consolidate. Ieri, come oggi e come, forse, anche domani. Cento anni di Sciascia per l’Italia e per la Sicilia. A ciascuno il suo.

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