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Legge 180, 47 anni dopo: la rivoluzione di Basaglia e le sfide ancora aperte della salute mentale

Il 13 maggio ricorre l’anniversario della Legge 180 del 1978, meglio conosciuta come “Legge Basaglia”, dal nome dello psichiatra veneziano Franco Basaglia che ne fu l’ideatore e il principale promotore. Una legge rivoluzionaria, che cambiò radicalmente il volto della psichiatria in Italia e il modo in cui la società percepisce e tratta le persone affette da disturbi mentali. La Legge 180 sancì la chiusura dei manicomi, istituzioni che fino ad allora avevano rappresentato la risposta predominante — e spesso repressiva — al disagio psichico. Le persone ricoverate venivano spesso isolate dalla società, sottoposte a trattamenti disumanizzanti e private dei diritti fondamentali. Con questa normativa, l’Italia divenne il primo Paese al mondo a decidere per legge la chiusura degli ospedali psichiatrici, promuovendo una nuova visione fondata sulla tutela della dignità, della libertà personale e sull’inclusione sociale. La Legge 180 non si limitava alla chiusura dei manicomi: ridefiniva completamente l’approccio terapeutico, introducendo una rete di servizi territoriali come i Centri di Salute Mentale (CSM), le strutture residenziali leggere e l’assistenza domiciliare. L’obiettivo era curare i pazienti nel loro contesto di vita, evitare l’istituzionalizzazione e favorire la loro integrazione nella società.
Dopo quasi cinque decenni dall’entrata in vigore della legge, è legittimo chiedersi: quanto è cambiata davvero la vita dei malati mentali in Italia? Indubbiamente, il sistema di assistenza è più umano e rispettoso. I manicomi non esistono più, e nessuno può essere ricoverato contro la propria volontà se non in casi estremi, e sempre sotto il controllo del giudice tutelare. Il malato mentale non è più visto come un pericolo da segregare, ma come una persona da curare, sostenere e includere. Tuttavia, le criticità non mancano. La rete dei servizi territoriali, pur prevista dalla legge, è distribuita in modo disomogeneo sul territorio nazionale. In alcune regioni il sistema funziona, con centri di salute mentale efficienti e personale preparato. In altre, invece, i servizi sono carenti, le risorse scarse e gli operatori insufficienti a garantire un’assistenza adeguata. Molti pazienti e famiglie lamentano ancora oggi difficoltà nell’accesso alle cure, lunghe liste d’attesa, mancanza di continuità terapeutica e un certo ritorno a forme di contenimento, seppur non fisico, attraverso la medicalizzazione e l’uso eccessivo di psicofarmaci. In certi casi, l’assenza di strutture e supporti porta ancora alla marginalizzazione o addirittura alla criminalizzazione del disagio psichico.
L’anniversario della Legge 180 non è solo una data sul calendario, ma un richiamo alla coscienza collettiva. È la memoria di una rivoluzione silenziosa, fatta non di clamori ma di dignità restituita, di porte aperte, di volti che tornavano a vivere. Eppure, a distanza di 47 anni, quella voce che chiedeva libertà, diritti e umanità non si è spenta. Risuona ancora nei corridoi dei servizi sovraffollati, nelle storie di chi attende una visita, di chi cerca ascolto e trova burocrazia. Risuona soprattutto nel silenzio che ancora avvolge il tema della salute mentale, troppo spesso dimenticato. C’è bisogno di cura, sì, ma anche di cultura. Di parole nuove per raccontare la fragilità senza paura, di gesti concreti che rendano giustizia allo spirito di Basaglia. Perché la follia non è un errore da correggere, ma una parte dell’umano da comprendere. La Legge 180 ha chiuso i manicomi, ma non basta aprire le porte se non si aprono anche gli sguardi. Per questo, oggi come ieri, serve il coraggio di tornare a vedere. Con occhi più liberi, più giusti. Più umani.

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