Costume

U Saccu dei Devoti

Dal 3 al 5 febbraio, il tempo si ferma, la quotidianità si blocca e la vita dei catanesi si espande in un lungo momento in cui tradizioni del passato si fondono con una fede imperitura che ha attraversato i secoli. In questi tre giorni la storia di una giovane fanciulla catanese riemerge prepotente e si impone, con il suo sacrificio, sulla superficialità che stritola le nostre esistenze.
La storia di Agata che i devoti chiamano affettuosamente la “Santuzza” svolazza sulle bocche di tutti e viene raccontata ai bambini che ascoltano avvinti, le sue vicende di coraggio e di fermezza. Qualità che oggi affascinano, che destano stupore e meraviglia in una società come la nostra che si lascia trasportare dalle maree mediatiche in cui ognuno di noi trova molto più sicuro confondersi nelle azioni degli altri, piuttosto che affermare le proprie.
Così ogni anno, i catanesi si animano e spendono tutte le loro energie per ricordare questa storia iniziata nel III secolo, quando Agata una ragazza di 15 anni dedicò la sua vita a Dio indossando il velo delle vergini consacrate.
Ma il proconsole Quinziano, invaghito di lei, non accettando il suo rifiuto, la accusò di essere cristiana e la torturò barbaramente fino a provocarne la morte nel 251.
Questo gesto così determinato, ogni anno ci infonde quell’audacia che giace inerme in fondo ai nostri animi, e noi tutti, animati dalla speranza di trarre dal suo esempio la forza che non abbiamo, ci prepariamo ad attenderla, festeggiando, nei dieci giorni antecedenti, al suono di allegre marcette eseguite da una banda musicale, il passaggio delle Candelore, “I Cannalori”. Gli alti e grossi ceri, carichi di fiori e di decori dorati in pieno stile barocco siciliano che, in rappresentanza delle antiche corporazioni della città, sfilano per le vie con la caratteristica andatura ondeggiante della “Annacata”.
E indossiamo il tradizionale “Sacco”, una tunica bianca e un copricapo di velluto nero “Scuzzetta” per ricordare la camicia da notte con cui i cittadini uscirono in strada nel 1126 per accogliere le reliquie di Agata che ritornavano tra i suoi concittadini ad opera di due soldati, Gilberto e Goselino, dopo essere rimaste 86 anni a Costantinopoli, portate con sé dal generale bizantino Giorgio Maniace il quale le aveva trafugate nel 1040 come bottino di guerra.
La attendiamo ammassati lungo il ciglio delle strade principali, accalcati gli uni sugli altri, smaniosi di toccare il fercolo d’argento che la trasporta, un baldacchino adornato, il 4, di garofani rosa, simbolo del martirio, e il 5, di garofani bianchi, simbolo di purezza e di fede. Ma non tutti sanno che prima del 1379 era in legno dorato molto pregiato e che successivamente, nel 1518, venne realizzato in argento massiccio dal maestro orafo Vincenzo Archifel.
E oggi, noi tutti, fedeli devoti, ammiriamo questo magnifico tempietto d’ argento, la nostra amata “Vara” che custodisce il busto reliquiario di Agata e che la accompagna nel suo cammino in mezzo alla folla esultante.
E Agata, la nostra santa patrona, la nostra eroina, tirata da lunghi cordoni bianchi, con il suo viso roseo e delicato, dona uno sguardo rassicurante ai volti protesi, un simbolico abbraccio di serenità che distende le nostre angosce quotidiane e noi per due lunghi giorni ce ne dimentichiamo al grido:
“Semu tutti devoti tutti? Cettu, cettu, cettu”.
E sotto un cielo, illuminato dalla brillantezza dei colori dei fuochi d’artificio, ci lasciamo inondare dai loro bagliori, paghi della gioia che respiriamo nell’aria fredda di febbraio.
Le odierne logiche economiche di profitto, che trasformano in denaro ogni aspetto della nostra esistenza, nonostante il loro pressante tentativo di commercializzare a proprio esclusivo vantaggio, non sono riuscite a prevaricare il profondo senso di devozione dei catanesi e la loro fede nei confronti di una giovane ragazza che tanti secoli fa ebbe il coraggio di opporsi come donna alla prevaricazione di un uomo che vedeva in lei solamente un oggetto da possedere, ma che ebbe anche, come cittadina, la fermezza di non soggiacere agli ordini di un proconsole romano.
Fiera di essere catanese e siciliana, Ella è divenuta simbolo della resistenza all’oppressore straniero.
Agata ci ricorda che la dignità di donna e di cittadini non può e non deve essere calpestata in nome di una presunta superiorità.
Ogni anno attendiamo la sua uscita dalla Cattedrale, soprattutto oggi, dopo due anni di pandemia, aneliamo la sua presenza con particolare trepidazione.
Però, ricordiamoci sempre che, quando indossiamo “U saccu”, esso non è un semplice travestimento ma che è espressione del modo in cui dovremmo vivere la nostra vita.
Una vita intrisa di una spiritualità intensa che ci eleva in alto verso il Divino, rendendoci migliori moralmente e socialmente, e che al tempo stesso ci impone di risvegliarci dal nostro torpore per riprendere ad amare e a lottare per la nostra città, vituperata da troppi anni di politiche messe in atto da uomini che, come il proconsole Quinziano, hanno mirato solamente ai propri vantaggi personali.
Quando indossiamo “U Saccu” ricordiamoci che, dietro a tutte le luci colorate di questa spettacolare festa cittadina, si cela la storia di una donna, la nostra Santa Patrona, che ogni anno ci restituisce la nostra identità di cittadini e di uomini, stringendo nella mano sinistra una tavoletta con su scritto:
“Mentem Santam Spontaneam, Honorem Deo et Patriae Liberationem”
“Mente Santa, Spontanea, Onore a Dio e Liberazione della Patria”.

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