Storie di Sicilia

Le chiese cristiane siciliane dei secoli III e IV

Nell’affrontare il tema del presente articolo ci sembra opportuno richiamare in premessa quanto già pubblicato per la esatta collocazione del sito di Etna-Inessa, che riteniamo di aver fondatamente dimostrato corrispondere al sito dell’odierna Motta Santa Anastasia; il testo è disponibile su Academia.Edu. Prima di parlare delle testimonianze archeologiche cristiane collocabili nel territorio di Etna-Inessa, appare utile attenzionare gli  elementi che hanno contribuito a determinare il quadro dinamico e diversificato di riferimento politico-gestionale-economico e culturale-religioso della Sicilia Romana; fattori che hanno avuto evidenti influenze sullo sviluppo dell’organizzazione agraria, sociale e delle presenze organizzate delle comunità cristiane e non in Sicilia, degli investimenti della classe senatoriale in Sicilia, unitamente alle classe degli Equites, anche con specifico riferimento al territorio di Etna-Inessa, l’odierna Motta Santa Anastasia, nel periodo che va dal I secolo a.C. al VI secolo d.C..  Tali condizioni, per il periodo cui ci riferiamo, sono poste in essere e sviluppano i loro maggiori effetti sociali, economici e religiosi ad iniziare, specie nell’area attorno  Catania, dagli interventi operati dall’imperatore Augusto ad iniziare dal 22-21 a.C.. I principali elementi che ebbero rilevanza nel definire progressivamente e con le evidenti differenze manifestatasi nel corso dei secoli e sui singoli territori, ad iniziare già dal I secolo a.C., lo sviluppo socio-economico e religioso in Sicilia, con particolare riferimento alla zona che gravitava attorno Catania, sono così sintetizzabili: la rilevantissima valorizzazione istituzionale e politico-amministrativa di Catania nell’organizzazione romana della Provincia Sicilia, alla cui Cora vennero aggregati vastissimi territori di antiche citta siceliote ormai da tempo prive di autonomia politica, tra cui Etna-Inessa; la distribuzione di lotti di terreno anche nella zona delle cosidette “ Terreforti di Catania” ai veterani delle legioni romane che avevano concluso il periodo di servizio militare; il flusso migratorio di comunità giudaiche dopo il 70 d.C. verso la Sicilia che, come sostiene il Lancia Di Brolo, erano fortemente concentrate nella regione dell’Etna(1) ; l’acquisizione in vario modo di ampi latifondi in tutta la Sicilia da parte di molte importanti famiglie senatorie romane in uno ai possedimenti imperiali, con specifico riferimento alla zona dell’Etna e della Piana di Catania; gli investimenti della classe degli Equites gia presenti in Sicilia dal II secolo a.C.; la ripresa economica della Sicilia avviatasi durante l’età dei Severi; la liberalizzaione del commercio granario dell’isola, svincolatosi dagli obblighi annonari dopo la costituzione della Provincia Africa il cui grano venne destinato all’annona romana; la modifica della legislazione di Roma nell’ambito delle libertà di culto, spesso smentita dalle ricorrenti persecuzioni contro i Cristiani,  ai quali dalla metà del III secolo viene concessa la possibilità di erigere costruzioni destinate al culto religioso, per altro presenti in Sicilia, in base ai dati dell’evidence archeologica, già  dalla fine del II secolo d.C. a Siracusa; la definitiva affermazione della religione cristiana nell’impero ad opera di Costantino; la controriforma culturale pagana che in Sicilia diede luogo a produzioni letterarie contro il Cristianesimo; le invasioni barbariche nella penisola italiana che fanno arrivare in Sicilia molte importanti famiglie romane; l’invasione dei Vandali e dei Goti in Sicilia; la perdita della Provincia Africa da parte di Roma; l’intervento dell’impero Bizantino nell’isola; le modifiche intervenute nell’ambito del lavoro schiavistico-servile, collegate allo sviluppo del colonato,solo per citare i più importanti fattori. Delle correlazioni tra distribuzione e localizzazione dei possedimenti fondiari romani in Sicilia e sviluppo del Cristianesimo è convinta anche Mariarita Sgarlata: “L’analisi della ‘ geografia patrimoniale’ delle grandi famiglie romane in Sicilia, ricostruibile almeno fino al sacco di Alarico e alle prime incursioni dei Vandali ( fino alla metà circa del V secolo), si intreccia inevitabilmente con lo studio della cristianizzazione e le testimonianze, per la verità più episodiche che in altre aree del Mediterraneo, di Martirio[…]”. (2)

In Sicilia e specificatamente in alcuni territori, quale quello dell’odierna Motta Santa Anastasia, ha avuto, inoltre,  peculiari effetti quella che Lellia Cracco Ruggini, citando Marziale ( X.v.74), ha indicato come una condizione socio-culturale per cui: “ Un Romano di prestigio, alla fine del I secolo d.C., doveva per forza possedere qualche fattoria nella regione di Hybla: uno snobistico status symbol, insomma.” (3)

Il collegamento tra Etna-Inessa e la regione di Hybla è già di per se possibile in quanto anche qual’ora non si volessero citare gli storici antichi che avevano indicato due Hyble nelle vicinanze di Catania, l’individuazione di una delle due Hyble nell’odierna Paterno, collegherebbe direttamente l’antico territorio di Etna-Inessa, e quindi dell’odierna Motta Santa Anastasia, alla “ Regione di Hybla”. Il mistero dell’antica Hybla o delle Hyble citate da Pausania, dovrebbe essere affrontato, come appare evidente qual’ora non si voglia far coincidere il sito di una delle Hyble esattamente con il sito dell’odierna Paternò o, in generale, con il suo territorio o con il territorio di Etna-Inessa ( ben diverso e molto più esteso dall’attuale territorio di Motta Santa Anastasia), sia tenendo conto degli effetti delle innumerevoli colate laviche che hanno interessato il versante meridionale dell’Etna ( in particolare quella del 253 d.C.); tale indagine andrebbe posta sia con riguardo alla estensione ed alle caratteristiche territoriali delle città che erano in condizione di operare un controllo sul territorio di loro pertinenza ad iniziare dai primi secoli del I millennio a.C. e comunque prima della fondazione di Hadranon da parte di Dionisio di Siracusa nel 400 a.C., atteso che a quella data l’esistenza di Hybla era già assodata ed oggetto di citazioni da parte degli storici antichi. In tale periodo storico possiamo rilevare come nel versante meridionale dell’Etna, ad iniziare dalla costa ionica e fino al confine con il fiume Simeto e Dittaino erano presente solo tre città dotate di autonomia politica e di una Cora ben definita ed oggetto di controllo da parte di esse: oltre Katana, vi erano solamente Hybla ( che molti sostengono essere stata la Gereatis, l’odierna Paternò) ed Etna-Inessa, corrispondente all’odierna Motta Santa Anastasia, quest’ultima ieri come oggi nella posizione intermedia tra Katana ed Hybla Gereatis. Il territorio di tali tre città nel periodo antecedente il V secolo a.C., ovvero Katina, Etna-Inessa e Hybla Gereatis, si snodava ad iniziare dai fiumi Simeto e Dittaino per arrivare, nel caso di Etna-Inessa fino alla cima dell’Etna, confinando, il territorio di quest’ultima, a sud-ovest con il territorio di Centuripe e a sud con il territorio di Leontini. Rispetto alle pertinenze territoriali delle predette tre città in un’epoca collocabile tra l’VIII ed il III secolo a. C., appare utile riportare una affermazione del Casagrandi, che così si pronuncia: “La marcia dell’espansione delle colonie doriche verso le falde dell’Etna fu iniziata da Gela e quando per la morte di Ippocrate e per il passaggio di Gelone a Siracusa la energia dell’espansione Rodiota venne meno e passò a Siracusa, fu allora che le falde etnee meridionali ed occidentali furono per la prima volta prese d’assalto dagli Elleni dell’isola ( Sicelioti), all’oggetto di una vera e prorpia occupazione in danno della gente sicula. Catania, che avrebbe dovuto salire prima d’altri alla conquista del vulcano, non si sentì le forze: vi sarebbe salita, se invece di calcidica, fosse stata corinzia, o cretese o rodiota”. (4)

Nel variegato rapporto politico e territoriale che caratterizzò i rapporti tra le città di Katana/Catina ed Etna-Inessa, nel corso dei secoli il confine delle due città fu variato più volte, per effetto, soprattutto, della progressiva espansione demografica di Katana/Catina e, ad iniziare dal I secolo a.C., della lievitazione del suo ruolo politico nell’area etnea e non,  in epoca imperiale. Nel periodo iniziale che seguì la colonizzazione calcidese, il territorio di Katana sembra che non si estendesse oltre due miglia verso l’interno ad iniziare dalla costa ionica; il Cordaro Clarenza così si esprime sulla Katana degli inizi: “Pure secondo usanza di quei remoti tempi non era allora Catania una grande città; ma com’è di avviso di Samuele Bochart, un picciol castello che di tempo in tempo ingrandissi. Catina parvum erat oppidum, antequam naxii illud auxissent. Bochart Geogr. Sacra lib. I, cap. 28, p. 14”.(5) Diversa la consistenza del territorio di Catina in epoca repubblicano-romana ( siamo all’incirca nel 133 a.C.) allorchè il confine tra tale città ed Etna-Inessa, probabilmente, si trovava in quella che oggi è la contrada mezzo campo di Misterbianco, secondo una precisa indicazione del Carrera, collegata ad un ritrovamento archeologico descritto nel XVII secolo. Così si esprime il Carrera: “Tre miglia lontano dalla città [ Catania ] per ponente nella contrada, che dicon Mezzo Campo, dirimpetto alla chiesa dell’Annunciatella si ritrova una Pietra di Mongibello alta di terra quattro palmi, e tre sottoterra, la cui maggior larghezza ha due palmi e mezzo. In quella faccia si legge a grandi lettere CONS, dall’altra parte in una riga a piccioli caratteri FINES, e in’altra riga UR/, cioè URBIS. Di sotto segue una linea, e appresso un’altra parola, che non si può leggere per esser disfatta la scrittura. Questa pietra, quasi diece anni sono, fu qui piantata dal Ministro di essa chiesa, ma ritrovata nell’entrata di quella, a pena per tre canne di distanza dal luogo, dove hora sta. Si dimostra esser posta nel tempo de’ Consoli Romani per terminare qualche gran differenza di confini, che all’hora fosse tra la città di Catania e l’altra ( Etna); o più tosto tra la medesima, el publico del dominio romano [ ager publicus]”.(6) Il cippo di confine che noi riteniamo segnasse il confine territoriale tra Catina ed Etna-Inessa era già stato segnalato da Georg Walter nel 1625; attualmente costituisce un reperto in possesso del Museo Civico di Catania e si trova esposto nel cortile interno del Castello Ursino; come si vede nelle foto sottostanti che mostrano le due facce del reperto.

Figura 1 Il cippo di confine citato dal Carrera, trovato nella chiesa dell’Annunciatella in contrada di Mezzo Campo, oggi comune di Misterbianco, esposta nel Museo Civico di Catania, nel cortile interno del Castello Ursino di Catania ( foto Mario Guarnera)

Etna-Inessa e la politica romana nella provincia Sicilia, in ambito amministrativo-fiscale e giudiziario

Nel nostro scritto sulla storia di Motta Santa Anastasia ( Etna-Inessa) abbiamo, con chiarezza ed ampia documentazione, evidenziato come la presenza di due appaltatori che ebbero in gestione gran parte del territorio di Etna-Inessa ( Nynpho di Centuripe ed il Cavaliere Romano Q. Lollius ) durante la pretura di Verre, fosse chiaramente indicativo del fatto che il territorio di tale città fosse stato inglobato nell’Ager Publicus Romano.

Non sappiamo in quali forme politico-amministrative si sia sostanziato, e per quanto tempo, ’inclusione del territorio di Etna nell’Ager Publicus Romano e nella Cora di Catania successivamente al 21 a.C.; abbiamo, però, una parte di una Novella di Valentiniano III, riportata da Guido Clemente il quale cita il Manganaro, che sembrerebbe attestare che a metà del V secolo d.C. la città di Etna fosse dotata di autonomia, certamente non politica, ma amministrativa-fiscale( qual’ora il contenuto della Novella non sia riferibile alla sola esigenza di individuazione del territorio di remissione del tributo): “ Nel 411 la Sicilia era ancora un’oasi di pace; una legge di quell’anno confermava per l’isola l’esazione dell’“aurum tironicum” sospesa in altre regioni devastate dalle invasioni. Nel 440, tuttavia, un novella di Valentiniano III, purtroppo mutila nella parte finale, parla di “remissio tributorum pro vastitatis qualitate concessa” e di “barbaricae vastitatis intuito”. L’esenzione parziale concessa al “Siculus possessor”, riguardava in particolare “Syracusanos vero Catinensis Aetnensis Lylibitanus Thermitanus Soluntinus…” indicando, in questo elenco incompleto, le aree più importanti della Sicilia tardo antica”. (7) Gli abitanti di Etna vengono, infatti, citati specificatamente «Aetnensis» e separatamente dagli abitanti di Catania «Catinensis», indicando pertanto una condizione censuale-fiscale circoscritta; tale elenco potrebbe indicare l’esistenza di specifici distretti fiscali da cui prelevare l’imposta dovuta: contesto che rende possibile avanzare l’ipotesi che anche per Etna nel 440 d.C. fosse individuato un territorio collegato alla organizzazione fiscale e giudiziaria romana ma escludendo, ovviamente, che potesse avere anche una autonomia politica ed, inizialmente, amministrativa: condizione che potrebbe essere esistita qual’ora fosse accertabile la condizione di “Municipio” per la città di Etna durante l’epoca imperiale. Se si trattasse di città, nel caso in specie “stipendiarie” o di semplici “distretti fiscali” è questione sulla quale si è molto discusso; ma, per dirla con Domenico Vera: “[…] da una notizia di Plinio il Vecchio, su cui si è molto discusso, il quale definisce stipendiarie gran parte delle comunità della Sicilia con riferimento non alle città, bensì ai rispettivi distretti fiscali [ tra cui la città di Etna]. Trattandosi delle aree nelle quali si concentrava, anche in antico, il grosso della produzione frumentaria, appare giustificato pensare che lo Stipendium fosse un’imposta fondiaria versata in grano, ma di ammontare fisso, che aveva sostituito l’antica decuma”. (8)

La problematica relativa alla esatta individuazione dello specifico sito di Hybla, scientificamente attestabile, tranne ad utilizzare l’indicazione complessiva del territorio di una città, delle Hyble o della Hybla esistenti/e nelle vicinanze di Catania non sembra essere stata ancora risolta. Le notevoli e diverse trasformazioni dei limiti territoriali di Motta Santa Anastasia, Belpasso e Paternò pongono qualche problema, qual’ora si voglia usare come riferimento il contesto territoriale delle tre odierne città o del contesto territoriale delle due antiche città esistenti nella “Regione di Hybla”: Hybla Gereatis ed Etna-Inessa. Non si può, però, non evidenziare come nel contesto delle ipotesi e delle perentorie affermazioni che sono state avanzate, tutti gli autori che si sono pronunciati in merito alla individuazione del sito di “ Hybla”o delle “Hyble”, hanno unanimemente ritenuto di condividere la convinzione-affermazione per cui l’ara, di epoca imperiale, di cui parlano il Biscari ed il Torremuzza, su cui poggiava una statua di Venere e nel cui prospetto frontale vi è incisa la dedica Veneri Victrici Hyblensi, fosse direttamente correlata al culto della Dea Hyblaia nonché collegabile con sito di Hybla e con il poemetto “Pervirgilium Veneris”, composto, come sostengono in parecchi, probabilmente in occasione dell’ascensione alla cima dell’Etna da parte dell’imperatore Adriano nel 126 d.C.. Nessun problema, da questo punto di vista dovrebbe esistere, se non fosse per il fatto che negli anni successivi alla pubblicazione della notizia da parte del Biscari, nell’anno 1784, chi ha, successivamente, indicato il territorio che Biscari comunica al Torremuzza come  luogo di provenienza dell’ara, ha ritenuto di affermare che la stessa provenisse da Paternò, mentre nel testo della lettera che il Biscari invia al Torremuzza viene chiaramente indicato come l’ara provenisse dalla “Terra della Motta vicino Paternò”, ovvero l’odierna Motta Santa Anastasia. Nel 1995 il prof. Pagnano ha pubblicato il testo della lettera che evidenzia con chiarezza il luogo di provenienza dell’ara: “ Godo che abbia incontrato il vostro [gradimento] la iscrizione di Venere Iblese, io l’ebbi nella terra della Motta vicino Paternò ma non so il loco preciso ove fu trovata”(9); dice il Biscari al Torremuzza.  Senza voler, qui, trarre dirette, meccanicistiche ma possibili conclusioni da questo dato certo ( il luogo di provenienza dell’ara ed il collegamento con Etna-Inessa/Motta Santa Anastasia), non possiamo fare a meno di condividere le giuste conclusione in merito alla correlazione tra il luogo di provenienza dell’ara ed il collegamento con Hybla o, comunque, con il culto della Dea Hyblaia e con il poemetto “Pervirgilium Veneris”. Va comunque detto che, con riferimento al periodo in cui è collocabile la problematica circa l’esistenza e la collocazione territoriale di Hybla, il territorio di Etna-Inessa, oltre che abbracciare una vasta area sul versante meridionale dell’Etna, arrivava sino alla cima dello stesso vulcano, come abbiamo già precedentemente documentato.(10)

L’ara recante la scritta Veneri Victrici Hyblensi è attualmente esposta presso il Museo Civico sito al Castello Ursino di Catania e riporta, nella didascalia, la parte del contenuto della lettera del Biscari al Torremuzza ove viene precisato che la stessa proviene dalla “Terra della Motta vicino Paternò”.

Figura 2 l’ara su cui poggiava la statua di Venere su cui è scolpita la scritta ” Veneri Victrici Hyblensi”, donata da Caio Publio Donato, attualmente esposta al Museo Civico di Catania presso il Castello Ursino ( foto Mario Guarnera)

Figura 3 – scheda illustrativa dell’ara di Venere Victrici Hyblensi, esposta presso il Castello Ursino di Catania ( Foto Mario Guarnera )

Hybla, paganesimo, cristianesimo e contesto culturale della Sicilia in età imperiale sono così collegati e descritti dal Mazzarino: “[in Sicilia] va rilevato, per esempio, che la prima iscrizione in cui appaia il termine latino-cristiano Paganus ‘ Pagano’(cfr. supra. S 67), è un’iscrizione latina che riflette la lingua di un villaggio siciliano ( Hybla). Il fenomeno si può illustrare con la presenza di toponimi in – anum, che indicano la formazione di un agglomerato attorno a masse latifondistiche romane. In questi latifondi studiano dotti Domini, dai Plotiniani dell’epoca di Gallieno a Nicomaco Flaviano Junior, che fa un’edizione di Livio apud Hennam; gli Hotia dei dotti signori sono anzi una caratteristica dell’isola, che habet et viros divites et eruditos in omni doctrina graeca quoque et latina”. (11)

Nel corso del periodo romano, anche nell’odierna Motta Santa Anastasia, le caratteristiche etnico-culturali specifiche prevalenti nella Sicilia orientale faranno sì che, assieme al limitato uso della lingua latina, si usasse prevalentemente la lingua greca o, in alcuni casi, l’uso congiunto della lingua latina e della lingua greca: tale uso, peraltro, è documentato che resistette, in alcune specifiche realtà, fin oltre il XIII secolo. In relazione all’uso delle due lingue (latina e greca) durante il corso del dominio romano, e della presenza di una comunità a Etna-Inessa inserita in un contesto di paganesimo, vi sono testimonianze storico-archeologiche che riguardano il paese di Motta, di cui la prima risalente, probabilmente, al III secolo d.C.. Su Motta Santa Anastasia abbiamo, infatti, uno specifico riferimento a una testimonianza archeologica storicamente documentata, che ci proviene da un rinvenimento avvenuto nel XVIII secolo, costituito da una lapide funeraria di cui parla il Ferrara. Dice, infatti, il Ferrara – facendo un riepilogo di alcuni ritrovamenti archeologici che riguardavano Catania e l’area intorno a essa – che: «La quarta [lapide; sc.] fu trovata nel contorno della Motta paese, a 6 miglia da Catania nel podere della famiglia Torresi presso cui si conserva. Si veggono il Diis manibus sacrum, e le cifre romane in una iscrizione greca segno evidente dell’uso delle due lingue in quell’epoca»(12). Il testo della lapide è il seguente: «D.M.S. Clodia Valentina salve vixit xxxx fecit suae uxori Igliatis Caricus»(13).

La lapide cui fa riferimento il Ferrara potrebbe costituire la testimonianza dell’appartenenza della famiglia della defunta alla religione pagana (gli Dei Mani), ed è una conferma di quanto sostenuto dallo stesso Lancia di Brolo che, parlando della situazione religiosa esistente nella zona territoriale cui appartiene Motta Santa Anastasia, riferisce che in tale zona, ancora durante il V secolo d.C., il paganesimo era ancora fortemente radicato. Dice, infatti, Lancia di Brolo: “E veramente se alla metà del VI secolo in Cassino nelle vicinanze di Roma adoravansi ancora Venere ed Apollo e manteneansi i boschi sacri, se resti di paganesimo duravano ancora in Sardegna fino al tempo di S. Gregorio, non è meraviglia che ve ne fossero in Sicilia sul principio del V; e in maggior copia ve ne dovevano essere sulle pendici dell’Etna dove tanto aveano favoleggiato i poeti, e dove gli uomini e la natura tante superstizioni per tanti secoli aveano accumulato”.(14) La presenza anche di lapidi greche era già stata segnalata in passato dallo stesso Fazello, che, nel parlare di Motta Santa Anastasia, affermò di aver visto nel paese due lapidi in caratteri greci, una su una parete della Matrice e l’altra su un soprassoglio di una casa privata.

Testimonianze storiche ed archeologiche paleocristiane in Sicilia

In un sito appartenente un tempo al territorio di Etna-Inessa prima ed al territorio di Motta Santa Anastasia fino al 1636, ovvero Contrada Grammena attualmente in territorio di Belpasso, da recente è stata riportata alla luce, tra l’altro, quella che può ritenersi una “ Basilica” paleocristiana, in quanto le sue strutture sono perfettamente assimilabile agli schemi architettonici tipici delle altre chiese paleocristiane di Sicilia. Prima di illustrare la scoperta archeologica realizzata in Contrada Grammena, ci sembra utile fare una rapida illustrazione di altre chiese paleocristiane di Sicilia già da tempo scoperte ed oggetto di pubblicazioni, al fine di mettere in rilievo somiglianze e differenze.

Come è stato più volte sottolineato da vari autori non sono emerse in Sicilia testimonianze archeologiche relative ad edifici di culto cristiani prima della fine del II secolo d.C. a Siracusa, e durante il III secolo nel resto della Sicilia: fino a quella data ( siamo intorno al 241 d. C. anno nel quale fu emanata una legge che permetteva ai   Cristiani di edificare edifici destinati al culto) il culto veniva praticato nelle catacombe e in case private. Sulle datazioni certe della presenza di comunità cristiane e di luoghi di culto annessi in Sicilia non si può che fare ricorso alla evidence archeologica; non escludendo altresì che le testimonianze storico-agiografiche che attesterebbero la presenza di primi nuclei cristiani in Sicilia già nel I secolo d.C., siano degni di fede. Alcuni elementi di valutazione, che scaturiscono da scoperte archeologiche, inducevano nel 1981 F. P. Rizzo ad ipotizzare la presenza certa di comunità cristiane in Sicilia nella seconda metà del II secolo d.C.: “Dunque, se l’ipotesi da me prospettata potesse avere un adeguato sviluppo, si potrebbe risalire alla seconda metà del II secolo per affermare l’esistenza di comunità cristiane in Sicilia. Del resto anche l’archeologia ce lo confermerebbe. L’interpretazione, infatti, dei nuovi dati acquisiti specialmente negli scavi delle catacombe di S. Maria Di Gesù, riporta ormai al 220-230 come l’epoca in cui vengono attestati i primi nuclei cimiteriali cristiani[…]. Ed anzi, non possiamo fermarci a questa data, perché proprio il dato archeologico presuppone il lento preformarsi di una comunità cristiana, che ci porterebbe dunque agli ultimi decenni del II secolo” (15).

Si cominciano a costruire edifici di tipo basilicale solo dall’impero di Costantino, nel IV secolo d.C., utilizzando a volte preesistenti edifici pagani o i loro siti. Una delle prime chiese cristiane di Sicilia, già oggetto di evidence archeologica per come riferito da F. P. Rizzo, e datata all’epoca costantiniana da Pietro Griffo, è  la basilichetta paleocristiana che sorge ai piedi del versante orientale della collina dei templi [ di Agrigento].”[…]Tale ritrovamento, pertanto, mentre data intorno al 370 la modifica intervenuta, offre un prezioso termine ante quem per l’impianto originario della basilichetta che può essere riportato al periodo costantiniano”. (16)  F. P. Rizzo, per la medesima chiesa, indicata come ‘ basilichetta del Vallone di S. Biagio’, ha ritenuto di fare le seguenti osservazioni con cui ha evidenziato alcune caratteristiche della stessa: “ Inoltre il tipo di struttura ( mononave solida e compatta) della basilichetta fa pensare che questa abbia avuto origine da un tempietto sepolcrale pagano [ sembrerebbe proprio che stia indicando un criterio identificativo ], come avviene per le memoriae di apostoli e martiri. In ogni caso la basilichetta è più vicina alla tradizione delle celle sepolcrali cristiane del III secolo che non alle grandi basiliche cristiane della seconda metà del IV secolo” (17).

Dall’inizio del V secolo, in Sicilia, non è raro trovare edifici cristiani costruiti sui resti di templi pagani (come hanno documentato, tra i tanti altri, il Cajetani e Giuseppe Agnello), utilizzando sovente alcune parti di precedenti costruzioni siceliote o romane o costruendo le nuove strutture su quelle preesistenti; l’esigenza di utilizzare parti di edifici preesistenti, o di riutilizzarne i siti  si può datare e ricollegare in Sicilia, dall’inizio del V sec., al dissesto dell’impero romano, conseguentemente all’invasione dei Vandali e dei Goti ed alla correlata mancanza del supporto organizzativo-finanziario dell’Impero Romano: ciò mitigato in parte dalla destinazione di un quarto delle rendite ecclesiastiche destinate alla costruzione di edifici dalla fine del V sec.. La situazione in Sicilia cambia nella seconda metà del VI ( 663), allorchè Siracusa divenne la capitale dell’Impero d’Oriente.

In Sicilia, comunque, parrebbe che la costruzione di luoghi di culto cristiano indicate con il termine di “Basiliche o Basilichette” abbia seguito, almeno secondo le osservazioni del Bottari, uno schema comune quasi identico in tutte le costruzioni di quel tipo censite. Ecco cosa afferma il Bottari nel 1950: “Memorie più o meno attendibili di edifici cristiani in Sicilia si hanno a partire dai primi decenni del IV secolo, ma – per quello che fin qui è venuto alla luce – la documentazione monumentale non incomincia prima del V secolo, che è il periodo delle lettere decretali dei Papi Semplicio ( 473) e Gelasio ( 494) con le quali si dispone che un quarto degli introiti di ogni chiesa doveva essere riservato alle fabbriche; lettere che non dovettero restare senza efficacia se, alla distanza di un secolo, S. Gregorio Magno, di cui è ben noto l’interesse delle cose di Sicilia, non trova di meglio che confermarle  ampliandone la portata;   lo stesso schema [ tardo romanico ] più ovvio e comune, tanto da diventare emblematico della chiesa romana, lo schema basilicale, si presenta, nel gruppo dei più antichi monumenti siciliani, in forme varie e complesse, e  talvolta insolite e addirittura – almeno per quel che so – uniche. Tale è il caso delle due chiesette di S. Pietro di Siracusa e di S. Focà presso Priolo, i cui avanzi di recente hanno avuto per l’acume del Pace una precisa interpretazione che ha pure consentito allo stesso studioso di chiarire il significato della curiosa planimetria – conservataci dallo stesso Inveges che ebbe a rilevarla prima della distruzione – della chiesetta palermitana di S. Maria La Pinta; e il sistema dovette avere una certa diffusione se, sulla traccia degli esempi indicati, il prof. Libertini ne ha potuto identificare un altro in una chiesetta presso Palagonia ( Pr. CT ). Il fatto insolito in queste basilichette – modellate per altro sullo schema assai comune dell’Aula Tripartita da Pilastri, con una Abside nella parte mediana della parte di occidente e spesso un Nartece nella parte anteriore – è dato dalle fincate, le quali, anziché da una parete continua, son costituite da un portico, o meglio da una serie di massicce arcate in alcuni casi sistemate nello spessore del muro ( S. Focà ), in altri su tozzi pilastri ( Palagonia ), in altri ancora su colonne ( S. Maria La Pinta )”.(18)  A questo gruppo di chiese potrebbero essere aggiunte le chiese di S. Pietro Intra Moenia e di S. Pietro ad baias, per la presenza di archi lungo le fiancate del muro, come può evidenziarsi nel disegno sotto riportato nella figura 4.

Figura 4 – Disegno della sezione longitudinale della  chiesa di S. Pietro ad Baias ( di G. Di Grazia) in G. Agnello – L’Architettura Biz…, cit. – p. 85

Sulla appartenenza alle chiese paleocristiane di Sicilia, della chiesa di S. Pietro Intra Moenia, la cui pianta è riportata nella sottostante figura 5,  ne è convinto l’Agnello che così si esprime: “ Un accuratissimo riesame del complessivo organismo architettonico e dei particolari che in esso è possibile sorprendere, ci pongono di fronte a conclusioni assolutamente inaspettate che assegnano al tempio una più antica età. E’ certo, cioè, che nel nucleo fondamentale, debba vedersi una costruzione paleo cristiana, precedente di diversi secoli il riadattamento bizantino. I dati architettonici concordano perfettamente con quelli forniti dalla tradizione secondo la quale, nella seconda metà del quarto secolo, il vescovo Germano, successore di Cresto, eresse, nei punti opposti di Ortigia, quattro chiese, dedicate rispettivamente, allo Spirito Santo, a S. Giovanni Battista, a S. Pietro e a S. Paolo. La chiesa di S. Pietro [intra moenia], ubicata a settentrione, realizza lo schema semplicissimo dell’edifizio a sistema allungato, ma senza integrazione del protiro ( dis. 13). Delle tre navate che la compongono solo la mediana, che misura una larghezza di poco più di cinque metri, è coronata, ad occidente, da abside semilunare”. (19)

Ed inoltre per le chiese come quella di S. Pietro Intra Moenia, la cui pianta è riportata nella sottostante figura 5 : “Il tipo di copertura era uguale per tutte e tre le navate: volte a botte, generalmente formate da conci, con saldatura a pezzame e largo rivestimento d’intonachi. Le maggiori difficoltà tecniche provenivano dall’impostazione della volta centrale, larga m. 5,40, mentre di più facile soluzione si presentavano le laterali, misuranti solo m. 2,60 di larghezza. […]. Il sistema lo troviamo largamente adottato in quasi tutte le primitive costruzioni basilicali di Siracusa, ma l’applicazione più scrupolosa – che desta giustificata meraviglia per la quasi fedele riproduzione delle proporzioni – si riscontra nella chiesa di S. Pietro ad Baias, che ha anch’essa la navata mediana di m. 5,40 di larghezza, e le due laterali di m. 2,50. […]. I muri perimetrali, in corrispondenza colle arcate delle navatine, sono attraversati, per una profondità che corrisponde, all’incirca, alla metà del loro spessore, da arcate analoghe[…]. (20)

Figura 5 – pianta della chiesa di S. Pietro Intra Moenia – disegno 13 in Agnello Giuseppe – L’architettura Bizantina in Sicilia – Firenze 1952 – p. 91

Figura 6 – Pianta della chiesa di S. Pietro ad Baias ( dis. di G. Di Grazia), in G. Agnello – L’architettura Biz…, cit. – p. 84

Della chiesa di Santa Maria della Pinta, distrutta nel 1648 secolo per esigenze difensive della città di Palermo, oltre la pianta della stessa abbiamo una descrizione fattane dallo stesso Inveges: “La chiesa di S. Maria Della Pinta ( di Palermo) è una delle più belle chiese, ch’edificarono gli antichi greci né loro tempi in Sicilia. Questo antico tempio, secondo riferisce F. Simone ( ò Simonetto) di Leontino vescovo di Siracusa: […] fu edificato, e consacrato insieme dall’eroe Belisario Capitano di Giustiniano Imp. Alla gloriosa Madre di Dio V. per la vittoria in Palermo contro à Vandali ( legge Goti) nell’an. Del mondo 4516. E del redentore 545 ( legge 535) […] à gloria della suprema Regina del Cielo: la cui immagine essendo stata depinta assai devota; fu chiamato il tempio di S. Maria Depinta. […]. Hor la nostra antichissima chiesa di S. Maria Della Pinta: era fabbricata nel gran piano del palazzo viceregio a pié del novo suo baluardo settentrionale. La figura del sito era riquadrata; poiché in ogni lato havea circa 30. Passi di distanza. La frontiera del suo muro settentrionale riguardava la bella strada del Cassaro, ove havea tre porte: la maggiore di mezo, che dava l’ingresso alla nave, e le due minori, che aprivan il passo alle due ali: & alle tre porte s’ascendeva per 7. Scalini, posti parti dentro, e parte fuori: poiché il sito della chiesa era rilevato sopra il Cassaro circa 7. Palmi. Il suo modello non era ordinario; cioè la nave, e le ali non erano in giro ricinte di muraglie, come nelle chiese latine: ma all’uso dei Tempij Gentilij; eran tutte al cielo aperte: & architettate di colonne di pietre in più pezzi, e di tetto di legname fatto in forma di carina di nave. La lunghezza della nave, e delle ali era uguale, e cominciava dal Cassaro, o’ dal muro, e porte settentrionali; sopra cui da Levante a’ Ponente s’attraversava la lunghezza del titolo di circa 30 passi. Onde la chiesa tutta alla mia età coll’ordinanza delle sue colonne figurava un T. latino maiuscolo; ch’era l’antico Tau, e la vera figura, della croce. La nave e’l titolo cavea ugual larghezza di 7 passi, e mezo circa; ma la lunghezza disuguale: poiché, la lunghezza della navea have 6. Colonne, e fra queste 5. Passi. Ma la lunghezza del titolo era dal muro di Ponente a’ quel di Levante eran 5. Altri archi; quel di mezo alla larghezza della nave, li dui ultimi grandissimi, e li 2. Di mezo alla larghezza delle ali. Et ogni ala al pari della nave havea 6. Colonne, e 5 archi: ma di larghezza circa 4 passi, e mezo. Al fianco però  delle colonne d’ogni ala era un ampio e discoperto cimiterio, o’ giardino: li quali venivan in giro da un’alta muraglia di 24. Pal. In circa rinterrati. Nel solo titolo eran gl’altari. I quali eran tre: tutti appoggiati alle mura: cioè l’altar di mezo, era appoggiato al muro meridionale, e riguardava la porta maggiore: ove era un bel quadro della Nuntiata: al corno del vangelo, & al muro orientale del titolo era l’altare della Candelora, o di S. Maria delle Gratie: & a’ quello dell’epistola,o’ alla muraglia occidentale era l’immagine devotissima, & antichissima del S. Crocifisso all’istesso muro dipinta: che hoggi e transportata alla chiesa dell’Itria, insieme cogli altri due ricordati quadri. Dietro il titolo, e del muro meridionale della chiesa eran fabbricate, e la sagristia, e le stanze del cappellano. Ma la nave, e le ali di questa chiesa nei tempi furon più lunghe di quelle che alla mia età si vedevano; poiché Don Garzia de Toledo per far il Cassaro ne ruinò quella parte settentrionale; che la dirittura della strada gl’impediva”. (21)

Figura 7 – pianta della chiesa di S. Maria della Pinta, pubblicata da Agostino Inveges

Sulla scorta dei dati architettonici relativi alla chiesa di S. Maria della Pinta, forniti dall’Inveges, sopra riportati, abbiamo chiesto all’Architetto Santi Gulisano, di Motta Santa Anastasia, di sviluppare dei disegni architettonici della medesima chiesa che fossero compatibili con i predetti dati. I risultati della elaborazione dei dati, che ci forniscono una possibile immagine della chiesa di S. Maria della Pinta, sono osservabili nei due sottostanti disegni.

Figura 8 – ipotesi ricostruttiva, in sezione, della chiesa di S. Maria della Pinta – dis. Arch. Santi Gulisano

Figura 9 – ipotesi ricostruttiva della chiesa di S. Maria della Pinta – dis. Arch. Santi Gulisano

Figura 10 – pianta della chiesa di S. Focà a Priolo – disegno 64 in Giuseppe Agnello – L’architettura Bizantina in Sicilia – Firenze 1952 – p. 294

A queste chiese paleocristiane, va aggiunta, stante le caratteristiche architettoniche rilevate e la datazione attribuita dal Libertini ( IV-VI secolo d.C.), anche la chiesa esplorata archeologicamente da Guido Libertini nel 1925 in contrada Ponte Po a Catania ed i cui dati vennero pubblicati nel 1928, da cui sono state tratte le due immagini relative alla “Basilichetta” di Monte Po, sotto riportate. (22)

Figura 11 – Foto dei resti della Basilichetta di Monte Po esplorata da Guido Libertini nella primavera del 1925 – immagine tratta da Atti del R. Accademia Nazionale dei Lincei – Notizie degli Scavi di Antichità – vol. IV, serie VI, fasc. 4°,5° e 6°, Roma 1928 – p. 242

Figura 12 – Planimetria della Basilichetta esplorata da Guido Libertini a Monte Po nel 1925 tra dagli Atti della R. Accademia Nazionale dei Lincei – Notizie degli Scavi di Antichità – volume IV, Serie VI, fascicoli 4°, 5° e 6°, p. 243 – Roma 1928

Ma torniamo ad alcune caratteristiche architettoniche che sono state individuate dal Bottari quali elementi caratteristiche delle chiese paleocristiane di Sicilia, ovvero la presenza di “una serie di massicce arcate in alcuni casi sistemate nello spessore del muro”.

Anche se non dovessimo considerare la presenza di arcate esterne come l’unico elemento certificante delle chiese paleocristiane di Sicilia, la presenza di tale elemento, ad avviso di chi scrive, è fortemente indicativo in tal senso: è interessante notare la presenza di tali archi esterni nella chiesa di Mili, nella successiva foto. ( 23)

Figura 13  –  Chiesa di Santa Maria di Mili con, in primo piano, gli archi esterni tipici delle         “ Basiliche a Portico” – immagine tratta da: Francesco Basile – Le nuove ricerche sull’architettura del periodo normanno in Sicilia, in atti del VII Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura 24-30 sett. 1950 –Palermo 1956, p. 262

Parrebbe azzardato richiamare la tipologia della “ Basilica a Portico” per la Chiesa di S. Maria di Mili, la cui fondazione normanna è stata da alcuni datata al 1092, se non fosse lo stesso Bottari a precisare alcuni elementi che attengono alla storia di costruzioni come questa: “ Quelle monastiche dei Basiliani son le più antiche di tali fondazioni, e, in molti casi, specie nella Sicilia Orientale, ove centri di culto erano sopravvissuti allo stesso fanatismo dei Mussulmani, più che di nuove costruzioni si tratta, come risulta dagli stessi diplomi, di riadattamento o di ricostruzione delle antiche”. (24) Inoltre, qualche dubbio circa la data di edificazione della chiesa di Santa Maria di Mili potrebbe provenire dagli “ Annali” del Camera che non indica la chiesa, bensì la badia o monastero come la struttura edificata dal Gran Conte Ruggero nell’anno 1092. Dice il Camera: “ Verso quest’anno [ 1092] il Gran Conte Ruggieri sempre intento a promuovere il vantaggio della religione cristiana, fondò in Sicilia le seguenti badie o monisteri, cioè quello di S. Maria De Mili dell’Ordine Basiliano in diocesi di Messina, […]”. (25) Dello stesso avviso, circa la tipologia di edificio religioso costruito dal Gran Conte Ruggero, è Giovanni Di Giovanni che così scrive: “Entrando poi il nuovo anno 1092 lo stesso conte Ruggiero fondò la badia di S. Maria di Mili dell’ordine di s. Basilio nel distretto di Messina, con ampio territorio di vari fondi, con una suprema giurisdizione, sopra i coloni dello stesso territorio con una totale indipendenza del vescovo del luogo, eccettuatane solamente quella di dargli due soli pani e una misura di vino, qualor anderà a benedirla, e con la franchigia di tutte quelle merci che nella Sicilia, o nella Calabria, erano per comprarsi, o per vendersi, in servizio del sudetto monistero”. (26)

Nella predetta chiesa di S. Maria De Mili il Gran Conte Ruggero fece seppellire la salma del proprio figlio Giordano. (27)

Specificatamente Francesco Basile associa le caratteristiche della chiesa di S. Maria di Mili alla chiesa di Agrò [Forza d’Agrò]: “Elemento strettamente connesso alla loro architettura è in tutte queste chiese il sistema decorativo in laterizi i quali rimangono in vista nelle pareti esterne, dove associano la loro porosa superficie ad altri materiali vagliati secondo il loro colore in ingegnose composizioni che si avvalgono di geometriche reticolature, di isene e di archi intrecciati, di cornici seghettate, di balze intarsiate, con vibrante risultato di policromia e di effetti pittorici”. ( 28)

Così come sembra rilevare la presenza di archi incassati nei muri dell’antica chiesa dei cappuccini di Catania, costruita sulla lava del 253 d.C. e demolita per far posto alla costruenda Camera di Commercio di Catania. ( 29)

Figura 14 – Chiesa dei Cappuccini di Catania costruita sulla lava del 253 d.C. e demolita per far posto alla Camera di Commercio di Catania – nell’unico muro ancora non demolito si intravede la presenza di archi inseriti nella parete – immagine tratta da: Salvatore Di Franco – La lava al molo di Catania della colata lavica della “ Salita Cappuccini” , in Rivista del Comune di Catania, presso l’Archivio Storico del Comune di Catania, anno IV, 1932, n. 4, p. 174.

La chiesa di S. Pancrati, presso Modica( la cui pianta ed il cui interno vengono rappresentati dalle due figure sottostanti), viene esclusa da G. Agnello dal novero delle chiese paleocristiane di Sicilia, annoverandola, egli, tra le chiese bizantine; ed infatti così egli si esprime: “Non sarà inutile avvertire, in via preliminare, che i ruderi della chiesetta [di S. Pancrati] non possono farsi risalire ad una costruzione paleocristiana, presentando la pianta lo schema delle basilichette con disposizione a trifoglio, che fu proprio del miglior periodo dell’architettura bizantina”. (30)

Figura 15 – Pianta della chiesa di S. pancrati ( dis. R. Carta), in G. Agnello – L’Architettura biz…, cit. – p. 147

Figura 16 – Foto dell’interno della chiesa di S. Pancrati – in G. Agnello – L’Architettura Biz…, cit. – tra le pp. 100-101

Una recente scoperta archeologica effettuata presso la contrada Grammena di Belpasso, fino al 1636 appartenente al territorio della Terra della Motta di Santa Anastasia e in epoca imperiale ad Etna-Inessa, ha riportato alla luce i resti di una “Basilica” i cui tratti caratteristici sono simili a quelli di altre chiese paleocristiane già conosciute da tempo in Sicilia. Dai risultati dell’indagine archeologica effettuata nel 2007 dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali di Catania, emersi nello scavo condotto in contrada Grammena, località Valcorrente, nel territorio di Belpasso, è stato possibile documentare l’esistenza di un’area acheologica nella quale sono stati messi in luce ruderi di una serie di strutture che si sono parzialmente sovrapposte nel corso dei secoli nello stesso sito ed il cui edificio più  importante emerso è costituito da una “Basilica”, la cui esistenza era già stata segnalata dal prof. Venerando Bruno, cultore della storia di Belpasso. Il lavoro redatto sulla base dell’indagine archeologica, è stato presentato con il titolo “L’insediamento di contrada Grammena a Valcorrente tra tardo antico e alto medioevo. La Longue Durée di un sito rurale in provincia di Catania”, al 15th Symposium on Mediterraneam Archaeology ( Soma), tenutosi a Catania dal 3 al 5 marzo 2011, e pubblicato sulla rivista della Associazione Internazionale di Archeologia Classica “ Fast Online Documents & Research”;articolo a cura di Elisa Bonacini e Maria Turco con appendice di Lucia Arcifa. (31)

Figura 17-Foto satellitare dello scavo-tratta da”Fasti Online Documents & Research”n. 251/2012-L’insed. di contr. Grammena a Valcorrente tra tardoantico e alto medioevo. La longue durée di un sito rurale in prov. di CT-di Elisa Bonacini-Maria Turco-Lucia Arcifa

I risultati degli scavi hanno permesso di accertare che nell’area dove sorgeva l’edificio di culto che nella relazione è stato indicato come “Basilica”, sono stati rilevati, tra altri,: “[…] resti riferibili ad un insediamento di età ellenistica ( IV-II sec. a.C […]), nonché resti di: “[…] un edificio rurale di epoca tardo romana, caratterizzato da molteplici fasi di vita e differenti riutilizzi […] inquadrabile nei secoli III-V d.C. “. (32) Va comunque messo in evidenza, ai fini delle successive ipotesi di contestualizzazioni storico-geografiche e delle nuove ipotesi di individuazione degli edifici che nei secoli si sono succeduti nel medesimo sito, come gli autori del lavoro hanno ritenuto di sottolineare che: “L’inquadramento cronologico delle varie fasi [ di insediamento in loco] risulta particolarmente incerto per l’assenza di piani d’uso circoscritti e a causa di un interno piuttosto limitato e, a volte, superiormente compromesso da lavori agricoli: elementi di datazione si ricavano esclusivamente dai crolli all’interno di alcuni dei vani”. (33) Particolare attenzione va data alla affermazione, per cui: “L’ultima frequentazione dell’area, infine, sembrerebbe inquadrarsi intorno all’VIII secolo d.C., forse riconducibile all’edificazione di un edificio di culto, dal difficile inquadramento cronologico e più volte modificato nella sua planimetria originaria, che parzialmente obliterò e distrusse la porzione centrale dell’insediamento rurale”. (34)

Figura 18 – Evoluzione della struttura di contr.Grammena- in”Fasti Online Documents e Research”n. 251/2012-L’insediamento di contr.Grammena a Valcorrente tra tardoantico e alto medioevo. La longue durée …- di Elisa Bonacini-Maria Turco-Lucia Arcifa

Così come va attenzionato il dato per cui: “Assai più cospicuo risulta, come vedremo, il gruppo di ceramiche, per lo più d’importazione, databili fra il IV e V secolo d.C.. A questa fase fa seguito, almeno sul versante meridionale dell’area di scavo, un periodo di abbandono, legato ad un qualche evento distruttivo”. (35) Gli scavi hanno permesso di accertare che l’edificio più importante di quest’area archeologica, tra quelli riportati alla luce, è costituito dai resti di una struttura di culto religioso che è stata indicata con il termine di ‘Basilica’; l’impianto di essa: “[…] risulterebbe piuttosto regolare, con un’aula di m 10,70 E/O x 15,10 N/S scandita in due navate laterali di equivalente larghezza ( m 3,35) ed una navata centrale esattamente doppia ( m 6,70) rispetto a quelle laterali[…].

Figura 19- Foto della Basilica-in”Fasti Online Documents & Research”n. 251 (2012- L’insediamento di contr.Grammena a Valcorrente tra tardoantico e alto medioevo. La longue Durée …- di Elisa Bonacini-Maria Turco-Lucia Arcifa

L’impianto planimetrico della Basilica di contrada Grammena sembra trovare i più stringenti confronti nell’edilizia religiosa siciliana tradizionalmente datata tra il V e VI secolo d.C., anche per il mantenimento del rapporto 2:1 fra la larghezza della navata centrale e quella delle navate laterali e per il tipo di schema progettuale proporzionato con moduli aritmetici (qui il rapporto è di 5:4) ed una base metrica dimensionata secondo un piede di m 0,296/o,297 ( 0, 2964), con un modulo base M di m 4,15 corrispondente dunque a 14 P, secondo le indicazioni proposte da F. Trapani. […]. Lo schema progettuale della basilica di contrada Grammena, riassumendo, racchiude in se le caratteristiche di tutte e tre le tipologie evidenziate dallo studio di F. Trapani: l’impianto generale, considerando il Nartece e ad esclusione della sola Abside ha un rapporto di lunghezza di 1:1, corrispondendo così ad un quadrato; includendo l’abside, il corpo centrale si presenta schiacciato a vantaggio della larghezza con un’aula rettangolare. Per lo sviluppo simile, per l’impianto inquadrabile in una griglia di 5×4 quadrati, per l’utilizzo come base metrica di un piede di m 0,296, decisamente più vicino al piede romano medio e tardo imperiale ( m 0,29574) anziché al piede bizantino ( oscillante fra m 0,305/o,315) utilizzato negli altri esempi chiesastici, ed ancora per la presenza del Nartece frontale e di pilastri posti tra le aperture a contrafforte lungo i muri perimetrali […]. (36) In merito agli elementi architettonici e di impianto che caratterizzano le chiese paleo-cristiane siciliane databili tra il IV-VI secolo d.C., così si pronuncia Francesca Trapani:  Lo schema della basilica a tre navate con un’unica abside è estremamente comune sia in Oriente che Occidente e trova maggiori confronti in impianti paleo-cristiani tra il IV ed il VI secolo, soprattutto per quanto concerne la larghezza della navata centrale, doppia di quella delle navate laterali. Tale caratteristica è ampiamente attestata negli esempi siciliani realizzati in questo stesso arco di tempo. Il loro esame consente, anzi, di enucleare tre schemi proporzionali ricorrenti utilizzati per chiese di piccole dimensioni e ubicate per lo più in piccoli centri a carattere rurale”.(37) Nello stesso articolo la Trapani analizza le caratteristiche delle basiliche di Sofiana e di Salemi, analizzando il rapporto tra dimensioni interne dei due edifici: “[…] il rapporto tra lunghezza e larghezza dell’intero corpo di fabbrica comprendente le tre navate, ad esclusione dell’abside, è pari a 1:1; lo schema è, cioè, un quadrato scandito in tre navate ove quelle laterali presentano un’ampiezza pari alla metà di quella centrale. […] La struttura architettonica di Sofiana […], il cui originario impianto a tre navate si data nella seconda metà del V secolo, è inquadrabile in una griglia di 4×4 quadrati: nei due mediani è ricavata l’ampiezza della navata centrale, compresi i pilastri che la dividono dalle navatelle; dalla sezione aurea del modulo di base è ricavato lo spessore dei dei pilastri e l’ampiezzadel piccolo nartece. […] Schema progettuale analogo si rinviene nella basilica di Salemi le cui più significative ristrutturazioni sono databili tra il V e il VI secolo […]. Dell’edificio si conserva solo la sezione destra per cui l’impianto originario è stato ricostruito ribaltando la pianta rispetto all’asse longitudinale. Sulla base di questo, lo schema progettuale è riconducibile ad una griglia di 4×4 quadrati di lato M, tangente al filo esterno dei pilastri divisori della navata centrale; l’abside a sesto pieno, con centro di curvatura sul filo murario interno, eccede rispetto alla griglia per una distanza pari a MV2-M. In questo edificio sembra osservarsi un fenomeno opposto a quello a quello della basilica di Sofiana, in quanto i lati longitudinali vanno leggermente aprendosi ‘a ventaglio’ verso il muro di fondo: soluzione attestata sia in basiliche rupestri di Puglia e Basilicata, sia più raramente in Sicilia”. (38)

Della basilica di Salemi, in località S. Miceli, si è occupato anche E. De Miro che colloca al IV secolo, in relazione alla correlazione con i cimiteri agrigentini, l’impianto originario della struttura e che, sempre con riferimento ad Agrigento, così si esprime: “ Ai margini della città sorge la prima basilica paleocristiana mono-absidata, con protiro e presbiterio, continuata sino al V secolo e con una struttura mononave solida e compatta, tipo logicamente vicina alla tradizione architettonica dei mausolei pagani dei secoli precedenti”. (39)

Figura 20 – pianta della basilica di Salemi – tra da Giuseppe Agnello – l’Architettura bizantina in Sicilia – cit., disegno 68, p. 298

Alcune caratteristiche delle chiese di S. Pietro Intra Moenia e di S. Focà vengono richiamate da G. Agnello nella descrizione della chiesa paleocristiana di S. Martino a Siracusa( foto sottostante – figura 21): “L’iconografia di S. Martino – altra importante chiesa paleocristiana di Siracusa – non si discosta dalle precedenti. L’introduzione dell’esonartece appartiene forse al rifacimento trecentesco, al quale deve farsi probabilmente risalire la decapitazione del tempio, colla soppressione delle volte a botte, rese più agevoli dalla minore ampiezza delle navate. Ma resta ancora integra la pianta. Pilastri ed archi hanno evidenti richiami a quelli delle chiese di S. Pietro e di S. Focà. Mancano del tutto accenni a tagli murari nella cortina delle piccole navate”. (40)

Figura 21 – Particolare interno della chiesa di S. Martino a Siracusa – in G. Agnello – l’Architettura biz…, cit. – p. 295

Così come è interessante osservare la pianta delle chiese di Cittadella presso Noto e dello Zitone presso Lentini [ oggi distrutta], delle quali l’Agnello dice: “Lo stesso schema [della chiesa di S. Martino] troviamo nella modesta chiesa di Cittadella presso Noto: pianta allungata, con abside semicircolare perfettamente orientata, rispondente alla nave del centro, pilastri quadrati disposti su due file.[…] nella ormai distrutta basilichetta di Zitone, presso Lentini, persisteva ancora lo schema allungato, ma, all’unica navata, corrispondeva all’estremità di uno dei due lati, la caratteristica abside, opponente, alla struttura semicircolare dell’interno, quella esterna di forma poligonale”. (41)

Figura 22 – Pianta della chiesa di Cittadella, presso Noto – in G. Agnello – L’Architettura biz…, cit. – p. 296

Figura 23 – Pianta della chiesa dello Zitone, presso Lentini – in G. Agnello – L’Architettura biz…, cit. p. 296

Alcune caratteristiche della “Basilica” di contrada Grammena sono ricorrenti in quasi tutte le chiese paleocristiane, come evidenziato da Stefano Bottari nel VII Congresso Nazionale di Storia dell’Architettura tenutosi a Palermo nel 1950, laddove lo studioso così evidenziò le principali caratteristiche di questi monumenti di culto cristiano: “Lo stesso schema [tardo romanico] più ovvio e comune, tanto da diventare emblematico della chiesa romana, lo schema basilicale, si presenta, nel gruppo dei più antichi monumenti siciliani, in forme varie e complesse, e talvolta insolite e addirittura – almeno per quel che so – uniche. Tale è il caso delle due chiesette di S. Pietro di Siracusa e di S. Focà presso Priolo, i cui avanzi di recente hanno avuto dall’acume del Pace una precisa interpretazione, che ha pure consentito allo stesso studioso di chiarire il significato della curiosa planimetria – conservataci dallo stesso Inveges che ebbe a rilevarla prima della distruzione – della chiesetta palermitana di S. Maria La Pinta; e il sistema dovette avere una certa diffusione se, sulla traccia degli esempi indicati, il prof. Libertini ne ha potuto identificare un altro in una chiesetta presso Palagonia( prov. CT). Il fatto insolito in queste basilichette – modellate per altro sullo schema assai comune dell’aula tripartita da pilastri, con una abside nella parte mediana  della parte di occidente e spesso un nartece nella parte anteriore – è dato dalle fiancate, le quali, anziché da una parete continua, son costituite da un portico , o meglio da una serie di massicce arcate in alcuni casi sistemate nello spessore del muro ( S. Focà), in altri su tozzi pilastri ( Palagonia), in altri ancora su colonne ( S. Maria La Pinta)”.(42) Della basilica di Palagonia, nel contesto delle ‘basiliche a portico’, G. Agnello ci da una sommaria descrizione: “ Il tipo della basilica a portico sembra rappresentato, fino a questo momento [ Agnello scrive nel 1952], dalla chiesa di Palagonia, la quale ha una sola navata, con corrispondente abside semicircolare. I muri perimetrali sono attraversati da archi che non portano tracce di tamponamenti. Ma il monumento manca, fino ad oggi, di uno studio approfondito”. (43)

Contestualizzazioni storico-geografiche correlate alle datazioni dei diversi reperti del sito di contrada Grammena

Una prima osservazione che può essere fatta rispetto alle dinamiche storiche che hanno interessato l’area geografica all’interno della quale si colloca contrada Grammena, nell’arco di tempo delimitato dalla datazione delle strutture che sono state rilevate in sito ( IV secolo a.C – VIII secolo d.C.), è enucleabile nel fatto che in tale arco di tempo le uniche realtà urbano-politiche che erano collegate territorialmente con tale area, erano costituite dall’odierna Paternò ( l’antica Hybla Gereatis come recentemente viene sostenuto) e dall’odierna Motta Santa Anastasia ( l’antica Etna-Inessa, così chiamata fino al V secolo d.C. e, successivamente, Santa Anastasia). Specificatamente contrada Grammena apparteneva al territorio di Etna-Inessa e poi di Motta Santa Anastasia sino al 1636. Prima Fenicia Moncada e poi Belpasso si svilupperà solo nei secoli successivi ed acquisirà una propria identità politico-amministrativa solo nel 1636, costituendo il proprio territorio sia per cessione di parte del territorio di Paternò sia per cessione di parte del territorio di Motta S.A., tra cui contrada Grammena. Misterbianco, che fino a meta seicento è stato un casale di Catania, posto a circa quattro miglia ( circa sei Km) a nord-est dell’attuale sito, dopo essere stato distrutto dalla lava dell’Etna nel 1669, si insedierà nell’attuale sito dopo tale evento, avendo acquisito una propria identità amministrativa solo nel corso del XVII secolo. Per quanto attiene alla collocazione territoriale di contrada Grammena, occorre ricordare che l’area relativa a contrada Grammena, fino al 1636, apparteneva al territorio dell’odierna Motta Santa Anastasia, e solo nel 1636 venne ceduta prima a Fenicia Moncada e poi alla neocostituita Belpasso, allorchè ottenne l’autonomia amministrativa da Paternò. Appare plausibilmente necessario, pertanto, evidenziare che le correlazioni  territoriali storico-politico-geografico-religiose funzionali alla identificazione delle strutture rinvenute nel sito di contrada Grammena, debbano essere ricercate, soprattutto, nella loro integrabilità nel periodo che va dal IV secolo a.C all’VIII secolo d.C., con la storia di Motta Santa Anastasia che, fino al 1636, includeva tale contrada nel proprio territorio. Dagli elementi traibili dalla storia della Sicilia e di Motta Santa Anastasia nel periodo delimitato tra il IV-II secolo a.C. e l’VIII secolo d.C., sappiamo che dall’iniziale inserimento del territorio di Etna-Inessa( Motta S.A.) nei possedimenti siracusani, inizialmente dal 476 al 452 a.C e successivamente dal 403 a.C. al 278 a.C., segue un temporaneo inserimento di tale territorio, dal 278 al 276 a.C., nei possedimenti di Pirro re dell’Epiro all’atto in cui conquistò gran parte della Sicilia;  successivamente il territorio dell’odierna Motta Santa Anastasia viene sottoposto al controllo dei Mamertini di Messina, dal 276 al 270 a.C., e, nel 262 a.C., al controllo dei Romani che, momentaneamente, dovettero cedere il controllo di tale territorio ai Cartaginesi, per ritornare, definitivamente sotto il controllo dei romani nel 210 a.C.. La situazione viene modificata nella seconda metà del V secolo d.C., a causa delle invasioni vandaliche che, poco dopo, devono cedere l’isola ai Goti che, a loro volta, devono cederla ai Bizantini nel 535 d.C.; che la dovranno ricedere ai Goti nel 549 d.C., che la cederanno definitivamente ai Bizantini nel 601 d.C.. Atteso che i dati ricavati dallo scavo indicano come possibile terminus post quem dell’insediamento ellenistico il IV secolo a.C. ( considerando a nostro avviso, con riferimento alla zona in cui è collocato l’insediamento, il III secolo a.C. e non il II secolo a.C. come terminus ante quem per un eventuale insediamento ellenico), parrebbe probabile, considerato il documentato sviluppo rurale nel periodo di pace che nel IV secolo a.C. seguì alla normalizzazione politico-militare della parte centro-orientale della Sicilia da parte di Siracusa, che l’insediamento ellenico di contrada Grammena possa essere stato uno dei tanti ‘ Pakis’ che si insediarono, a partire dal V secolo a.C. e non oltre il III a.C., in tutto il territorio di quelle che successivamente saranno definite “ le Terreforti di Catania”(44). Così come parrebbe logico ipotizzare che l’insediamento rurale romano possa essere datato non prima del II secolo a.C., ma privilegiando l’ipotesi del I secolo a.C.. Tali ipotesi sarebbero in linea con le trasformazioni politico-amministrative del territorio delle Terreforti di Catania imposte dall’imperatore Augusto tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C. allorchè, come da tempo è documentato, Augusto annesse, tra l’altro, l’entroterra delle Terreforti a Catania (45)(46)(47),  dove si trovava Etna/Inessa, riassegnando tali territori a nuovi coloni romani e non. Il  documentato insediamento nei secoli successivi di comunità organizzate all’interno dei tanti Paghi esistenti in quello che potremmo definire il “territorio metropolitano” di Catina, e monastico-eremitico alle pendici dell’Etna, dal III-IV secolo d.C. in poi, permettono una ipotetica correlazione  politico-religiosa della struttura di contrada Grammena, con l’insediamento di tali strutture. Bisogna inoltre considerare come il percorso dell’antica strada a Termis – Catina, dopo aver toccato la ‘ Stazione intermedia’ di Motta Santa Anastasia ( l’antica Etna-Inessa), aveva come ‘ Stazione successiva’ quella di Centuripe e non prevedeva una stazione intermedia ad Hybla Gereatis ( Paternò), lungo un percorso che, con molta probabilità, si sviluppava nella zona a ridosso della piana di Catania. Nelle immediate vicinanze di contrada Grammena si doveva trovare, invece, la strada che da Etna-Inessa conduceva alla vetta del vulcano Etna (48) e che nell’antichità fu percorsa da Platone, da Plinio e dagli imperatori Marco Aurelio ed Adriano( solo per citare i più importanti visitatori), che vollero salire sulla vetta dell’Etna, passando obbligatoriamente da Etna-Inessa. (49) Sulla stessa strada nei secoli successivi e fino all’età moderna, partendo dall’odierna Motta Santa Anastasia per arrivare a Belpasso, si realizzava a piedi nudi il percorso religioso-celebrativo legato al culto di Santa Lucia.

Abbiamo già precedentemente accennato ai possibili collegamenti tra i dati riferibili alla presenza di un Pakis siceliota  in contrada Grammena, presente probabilmente già nel IV-V secolo a.C. e ad un successivo insediamento rurale romano intorno al II secolo a.C. od anche successivamente, per i quali non vi sono elementi che possano permettere un ulteriore approfondimento identificativo. Diversamente, per la struttura di culto religioso che è stata definita Basilica, la cui datazione è stata posta tra IV e V secolo d.C., riteniamo che sia plausibile avanzare due specifiche ipotesi; la prima sulla base delle dinamiche che hanno fatto si che nel V secolo d.C. sia stato attribuito un patrono celeste alla struttura urbana corrispondente all’antica Etna-Inessa, oggi Motta S.A., attraverso l’acquisizione di reliquie provenienti dal corpo di una delle tre Sante Anastasia: il sito divenne così una di quelle “ città sante” il cui nome divenne quello del santo patrono di cui si custodivano le reliquie(50). La letteratura sull’argomento sottolinea come a seguito dell’acquisizione di reliquie di martiri, veniva posta in essere un’attività volta a realizzare un luogo di culto (51)(52) che fosse una chiesa, un monastero o un oratorio che, nella fase antecedente l’invasione vandalica della Sicilia, erano normalmente poste in territorio extraurbano. Solo dopo l’invasione vandalica molte delle chiese rurali, ove era spesso annesso un cimitero, vennero riedificate all’interno delle mura cittadine o a ridosso di esse. Non parrebbe, pertanto, improprio collegare questa dinamica storica riferita al territorio circostante Motta S.A., con il contesto relativo alla edificazione di chiese rurali in Sicilia e con il dato emerso dai reperti di contrada Grammena; sulla base degli elementi riferiti al reperimento di un gruppo di ceramiche, per lo più d’importazione, databili fra il IV e V secolo d.C., nonché ad altri elementi  emersi dallo scavo, che collegherebbero questa datazione, sul versante meridionale dell’area di scavo, ad un periodo di abbandono, legato ad un qualche evento distruttivo. La correlazione di tali dati con le devastazioni vandaliche appare plausibile. Sulla scorta dei dati a nostra disposizione non possiamo andare oltre l’ipotesi:  ma, nel caso in specie per i dati correlati prima indicati, non possiamo escludere che l’edificio di culto religioso rinvenuto in contrada Grammena potrebbe essere stata la primitiva sede extraurbana della Chiesa di Santa Anastasia, abbandonata, come le altre chiese extraurbane, nel V secolo a seguito delle invasioni vandaliche.  Una seconda ipotesi, legabile sia al prospettato evento distruttivo nel V secolo in contrada Grammena, sia al contesto dell’organizzazione delle strutture religiose in Sicilia nel V secolo d.C., potrebbe indurci a pensare che l’edificio religioso di contrada Grammena possa essere stato uno di quegli edifici religiosi distrutti, perchè luoghi di culto non riconosciuti dalla sede romana, forse edificato da qualche importante famiglia romana per il culto di un qualche soggetto tra quelli indicati nella decretale di Papa Gelasio del 494 d.C.. Tale attività repressivo-distruttiva ha avvio l’11 marzo 494 d.C. con l’emanazione della Decretale di Papa Gelasio, riguardante Calabria e Sicilia, che al punto 25 così recita: “ Della consacrazione delle nuove chiese, sebbene già si è detto sopra, tornasi ora a parlare, perché si è inteso che alcuni hanno osato edificare delle chiese dedicandole e con sacre cerimonie alla memoria di qual si voglia defunto, e qualche volta a quanto si dice, nemmeno fedele, il che è tanto dura e intollerabile cosa che veramente fa dubitare della fede cristiana in coteste contrade; perciò strettamente si proceda contro tanto disordine e scelleragine onde in nessun luogo resti impunito”. (53)  “ De locorum consecratione Sanctorum quamvis superius striati fuerit comprehensum, nobis quoque patefactum est, quod absque praecepto Sedis apostolicae nonnulli factas ecclesia vel oratoria sacrare praesumant: hoc sumus tamen indicio detestabili ore permoti, quod in quocunque nomine defunctorum, & ( quam dicitur) nec omnino fidelium, constructiones aedificatas sacri processioni bus audacter instituere memorantur. Quae quotiamo tam acerba tam dura sunt, ut eadem vix noster ferre possit auditus, si reveraChristianitatis affectus in illis regioni bus certus & fixus est, & districtius ista quaerantur, & a quibus fuerint gesta, prodantur: ita cum manifestis fuerit documentis expositus, quem tanti sceleris poscit immanitas, non effigie ullatenus ustione”. (54)

Nell’ambito di tale ipotesi parrebbe logico considerare come il santo cui la basilica era dedicata non potesse essere Santa Anastasia. Sempre nell’ambito della seconda ipotesi, collegata comunque agli interventi disposti da Papa Gelasio, potrebbe essere avanzata una correlazione con gli insediamenti nei territori pedemontani dell’Etna di comunità giudaico-cristiane, già presenti in Sicilia ed in tale zona già sin dall’inizio del II secolo d.C.; pari correlazione potrebbe essere operata con i numerosi insediamenti di proprietà  di importanti famiglie romane che nella zona pedemontana etnea avevano vasti possedimenti. Lo stesso Lancia di Brolo, ed altri autori, ritengono databile al III secolo d.C. la presenza giudaico-cristiana nella zona pedemontana dell’Etna; anche se alcuni autori, utilizzando il metodo dell’analogia, con riferimento alla ‘ Consuetudo’ giudaica, retrodatano tali insediamenti fino al I secolo d.C…(55)   Dagli ulteriori dati emersi nel corso degli scavi è stato ipotizzato un ripristino della basilica nel corso dell’VIII secolo a scopi di culto religioso. Il Siniscalco, invece, ritiene che la presenza di comunità ebraiche i Sicilia sia attestabile solo dall’inizio del III secolo d.C. e verosimilmente dalla fine del II secolo d.C.. (56) In conclusione ed alla luce della storia del territorio dell’odierna Motta Santa Anastasia, l’antica Etna-Inessa, ed in considerazione del fatto che contrada Grammena ha fatto parte del territorio della Terra di Motta S.A. fino al 1636, riteniamo che gli elementi di collegamento più probanti tra le caratteristiche della cosidetta “ Basilica” e gli eventi storici che si sono svolti sul territorio cui apparteneva, ci inducano, con metodica prudenza, a ritenere che tale struttura altro non fosse che l’iniziale sede della chiesa dedicata a Santa Anastasia, probabilmente distrutta durante l’invasione vandalica.

Una strana costruzione in contrada Nunziatella in territorio di Misterbianco

Chi proviene in macchina dalla tangenziale, provenendo dall’autostrada che da Siracusa porta a Catania, e si immette nello svincolo che conduce a Catania, Misterbianco e nell’area commerciale di Mezzocampo, in territorio di Misterbianco, appena superata la curva e prima di imboccare il nuovo svincolo che immette direttamente nell’area commerciale di Mezzocampo, può chiaramente notare, in contrada Nunziatella sulla destra ai piedi della collina, una struttura muraria costituita da una serie di archi antichi, osservabili nella sottostante foto.

Figura 24- struttura muraria formata da archi, visibile prima del bivio della tangenziale che immette nell’area commerciale di Mezzocampo – foto Mario Guarnera

Le strutture in questione non si limitano al prospetto che può essere osservato transitando dalla predetta tangenziale, ma hanno una consistenza muraria interna che definisce un perimetro di vaste proporzioni e che si collegano a strutture murarie esterne, chiaramente visibili ad occhio nudo che, come riteniamo, possono essere  ricollegate a siti ed eventi storici che interessano la storia di Sicilia, di Catania e dell’aragonese Mota de Santa Anastasia del XIV secolo. Le strutture visibili nella precedente foto insistono sul territorio del comune di Misterbianco e sono visibili sulla mappa catastale che interessa il territorio di tale città, rilevabili nella riproduzione della sottostante porzione di specifico territorio ove insistono le strutture prima indicate. Al fine di individuare con esattezza la contrada Nunziatella, già indicata dal Carrera come il luogo dove fu ritrovato il Cippo di Confine Romano, citato in precedenza, abbiamo alcuni riferimenti storici. Publicata negli “ Atti dell’Accademia Gioenia di Scienze Naturali di Catania”, riportiamo una notizia in ordine al collegamento territoriale tra la contrada Mezzocampo e la contrada Nunziatella: “ La formazione di argilla e di arenaria occupa ivi l’altura da sud-est, e prosegue in tutte le direzioni a formare colline di figura conica o rotondata, come sono quelle di Mezzocampo alle porte di ponente, del luogo di Gioenia a tramontana, e del predio del barone Annunziata alla parte di mezzogiorno”. (57) Altra notizia la ricaviamo dalla rivista “ Notizie degli scavi di antichità”: “ A chi da Catania muove verso il vicino paese etneo di Misterbianco, subito dopo aver lasciato l’abitato, lungo il fianco sinistro […] si presenta la collinetta chiamata Monte Po, dalla cui sommità si gode l’ampia vista delle pendici sud occidentali del […] toccando alcuni ruderi di questa contrada e, immediatamente sopra queste mura e queste torri si stende una terrazza ricca di vigneti generalmente indicata col nome di Nunziatella da una chiesuola ivi esistente sin dal secolo XVIII”. (58) Ed infine la notizia pubblicata da Lucio Sciacca: “Quarantanni fa ( 1939 ), la piccola borgata di San Giorgio era tutta concentrata nella parte alta dello stradale omonimo, nelle cosiddette “ Botteghelle “, come veniva allora indicato quel rione di casette, in gran parte rurali. Non molto distante dalla città ) dal Fortino, si e no, quattro chilometri ), vi si giungeva attraverso via Palermo e via Fossa della Creta (1), poi si tirava a mancina e qui, in direzione di ponente, s’incontrava questo stradale di terra battuta e brecciolone che, incassato nelle prime colline delle Terreforti, menava al centro della borgata, esaurendosi quindi in un bivio, un braccio del quale, quello meridionale in forte pendenza, portava alle contrade di Cardinale e Cuba, l’altro a Nunziatella, in territorio di Misterbianco”. (59)

Riportiamo, intanto, un’altra foto della struttura sita in contrada Nunziatella che permette di cogliere altri particolari architettonici della stessa, ovvero quelli che sembrano proprio gli archi esterni inseriti in un muro perimetrale di un’antica chiesa. (figura n. 22)

Figura 25 – Particolare degli archi esterni del lato nord della struttura in contrada Nunziatella ( foto Mario Guarnera)

Un ulteriore, specifico riferimento viene fornito da Alfio Longo: “ A pagina 28 del libro del sacerdote Bruno Antonino Licciardello del 1867 che trovasi nella biblioteca universitaria […], in riferimento alla Cappella della Nunziata ( o Nunziatella) così ci descrive: vicino monte Cardillo esisteva una cappella denominata Nunziatella ( oggi proprietà della famiglia Bruno) […] forse si trovava nel territorio di Misterbianco all’est di Mezzo Campo”. (60)

Non ci sembra il caso di sottolineare il fatto che in generale in Sicilia e nell’area catanese in particolare, per il suo alto livello e intensità di terremoti succedutisi, quasi l’interezza delle strutture sono state sovente ricostruite, utilizzando, laddove era possibile, parti residue dei precedenti edifici o i siti medesimi. Negli evidenti limiti di valutazione che sono determinati da una osservazione a distanza della struttura ed in assenza studi archeologici, gli elementi rilevabili visivamente, quali gli archi esterni e quelle che sembrerebbero ‘ volte a botte’, ci inducono ad associare la struttura in questione alle cosidette chiese paleocristiane a portico o ad arco esterno. Tuttavia non possiamo non citare il pensiero di Francesco Basile che nel riportare elementi dei suoi studi su quattro chiese siciliane basiliane tra cui quella di Mili e di Forza d’Agrò, tenderebbe ad attribuire alcune caratteristiche architettoniche di tali chiese all’opera dei Normanni : “ Da rilevare che delle quattro chiese siciliane del gruppo, di cui pubblicai nel 1938 i rilievi, e una minuta ricognizione, nella collana edita dall’Accademia d’Italia, sono perfettamente determinabili le date di fondazione, che risultano comprese tra il 1092 ( Mili) e il 1117 ( Agrò) ( sono dunque chiese erette dopo alcuni decenni dall’insediamento normanno nell’isola) ma l’identità dell’orientamento stilistico cui appartengono le accomuna alle due chiese basiliane calabresi. Elemento strettamente connesso alla loro architettura è in tutte queste chiese il sistema decorativo in laterizi i quali rimangono in vista nelle pareti esterne, dove associano la loro porosa superficie ad altri materiali vagliati secondo il loro colore in ingegnose composizioni che si avvalgono di geometriche reticolature, di iesene e di archi intrecciati, di cornici seghettate, di balze intarsiate, con vibrante risultato di policromia e di effetti pittorici”. (61)

Partendo dalla notizia pubblicata dal Walter e dal Carrera, che ci permette di accertare l’esistenza di una chiesa, che noi riteniamo essere la stessa del luogo cui si riferiscono le foto di cui alle figure 21, 22 e 23, vediamo di ripercorrere, tramite notizie storiche documentate, se nello stesso luogo sorgesse un’altra struttura religiosa e il periodo in cui esistette. Abbiamo, a tal fine, la possibilità di utilizzare una notizia che attesta l’esistenza di una chiesa nel medesimo luogo a metà del XIV secolo, nel pieno delle lotte baronali che, nel caso in specie vedevano contrapposti Enrico Rosso, signore della Mota Santa Anastasia e Artale Alagona. La vicenda: trovatosi inizialmente un fronte di nobili contrari, tra cui lo stesso Enrico Rosso, la Vicaria Eufemia e Francesco Ventimiglia, Artale Alagona si presentò in forze a Randazzo e, preso in consegna il Re, si trasferì prima a Mascali, in seguito ad Aci e, dopo alcuni mesi a Catania. L’azione di forza di Artale Alagona cementò una nuova alleanza contro di lui da parte della Vicaria Eufemia, di Enrico Rosso e di Francesco Ventimiglia che misero in campo un esercito con cui procedettero a occupare parte dell’isola che rientrava nella sfera d’influenza di Artale Alagona; i Chiaromonte, approfittando dell’occasione occuparono Cassibile e marciarono contro Siracusa. Dopo questi avvenimenti la Vicaria Eufemia: “ inviò ambasciatori ad Artale che si trovava a Paternò, intimandogli di lasciare libero il Re o di prepararsi ad una cruenta guerra. [Enrico; sc.] Russo, senza attendere risposta, la stessa notte proseguì la marcia e si portò con la sua milizia a Motta Santa Anastasia, che era di sua appartenenza. E lì, preparando con acume militare la strategia da attuare, si appostò in agguato vicino alla chiesa di San Giovanni, detta di medio campo. Vi incapparono, infatti, i cavalieri catanesi, che Artale aveva chiamati in aiuto, i quali furono costretti a darsi alla fuga, inseguiti dai nemici fino alla chiesa di San Cristoforo, che distava da Catania circa mille passi. Parecchi cavalieri catanesi catturati furono chiusi prigionieri nella rocca della Motta. Fra essi vi erano Giacomo e Giovanni Lauria, scudieri del Re, che il Russo rilasciò, ma trattenne in carcere Ruggero Mostaccio ed altri[i]. (62)

Figura 26 – alcune parti della struttura esistente in contrada Nunziatella, classificabili come le caratteristiche “ volte a botte”, anch’esse correlabili, così come gli archi esterni, alle strutture di una chiesa paleocristiana “ a Portico” – foto Mario Guarnera

In particolare la chiesa indicata nel passo precedente dovrebbe essere la chiesa di San Giovanni Gerosolimitano, probabilmente precedente possedimento dei Cavalieri Templari e successivamente assegnata ai Cavalieri dell’Ordine Gerosolimitano. In questa chiesa, se dobbiamo prestare fede a Jeronimo Curita Olivan de Castro, il 25 giugno del 1337, concluse la sua esistenza terrena uno dei più grandi Re di Sicilia, Federico III. Nel 1331 Re Federico associa al Trono il figlio Pietro, che diverrà Re di Sicilia il 29 giugno 1337, dopo la morte del padre Federico avvenuta il 25 giugno dello stesso anno; alcuni storici sostengono che Re Federico morì nella casa-ospedale gerosolimitana intitolata a San Giovanni Battista, esistente allora a Paternò: ipotesi che non trova, però, conferma nelle cronache di Jeronimo Curita de Olivan che narra una diversa storia legata a tale vicenda. Rispetto alle affermazioni di molti storici che indicano Paternò come il luogo in cui morì Re Federico, registriamo che il racconto che il Curita fa di tale vicenda non sembra autorizzare la conferma di Paternò come luogo della morte di Re Federico nel 1337. Il Curita afferma, infatti, che Re Federico, che si trovava a Paternò e che si dovette recare a Catania per organizzare la difesa delle coste siciliane minacciate dall’armata del Re del Marocco: «Viuio el rey don Fadrique despues muy pocos dias: el qual siendo muy viejo, e enfermo de gota, passando de Paterno a Catania, murio en el camino en una iglesia de la Orden de S. Iuan de Ierusalem Miercoles a veynte y cinco del mes de Iunio deste anno, aviendo recipido los sacramentos de la Iglesia come muy catolico Principe». (63) Il Curita, quindi, dice chiaramente che la morte del Re Federico avvenne mentre lo stesso si stava spostando da Paternò a Catania, «passando de Paterno a Catania, murio en el camino», nella Chiesa di San Giovanni dell’Ordine gerosolimitano: in quella stessa chiesa, probabilmente, che si trovava all’epoca tra Motta e Catania, come riferito nelle cronache dell’epoca, nella contrada detta di Mezzocampo, ancora oggi così chiamata e, attualmente, appartenente al comune di Misterbianco, precedentemente indicata nelle figure 21, 22 e 23.

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  32. L’insediamento di contrada Grammena …, cit., p. 2.
  33. L’insediamento…, cit., p. 2.
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  39. Francesca Trapani – L’impianto prog.., cit. – pp. 100-101.
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  42. Giuseppe Agnello – L’Architettura biz…, cit. – p. 295.
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