Il regno dell’estate negata

C’era una volta, in un regno affacciato sul mare, un’estate che non conosceva interruzioni.
Durava tre mesi pieni, come un respiro lungo e profondo. Finita la scuola e scritta l’ultima riga di compiti per le vacanze sul diario, i figli fluttuavano nel sacrosanto otium. Alcune mamme si trasferivano al mare con i figli, e ad agosto, come da copione, i padri le raggiungevano con valigie colme di costumi e giornali. Le case a mare si risvegliavano dal torpore invernale, i lidi si popolavano come piazze in festa, gli alberghi esplodevano di attività ludiche, voci e risate e il tempo sembrava sospeso tra il profumo di crema solare e il suono delle cicale. Un ritmo lento si impossessava di ognuno e i ricordi avrebbero avuto, per sempre, la sabbia incollata addosso. Era un rito collettivo, una liturgia laica che scandiva il calendario emotivo di un’intera generazione.
Ma un giorno, in un’estate non ben precisata del ventunesimo secolo, giunse il Pifferaio Magico. Non portava con sé topi, ma famiglie intere, sedotte dal suo flauto che diffondeva un eco di “offerte lampo” e pacchetti “tutto compreso”. Suonava melodie accattivanti: “Prenota ora, paga dopo”, “Sole garantito”, “Relax assicurato”. Così, come in una processione incantata, milioni di italiani lo seguirono e, così facendo, un’altra malia si diffuse: quella dell’overtourism, l’incantesimo dell’andare ovunque perché tutti ci andavano. I luoghi, un tempo custodi di silenzi e rivelazioni, si trasformano in scenografie stanche, consumate da passi ripetuti e da sguardi distratti. Il viaggio, che dovrebbe essere iniziazione, scoperta, fatica feconda, si dissolve in un rituale collettivo privo di tensione, dove ogni sentiero è già stato battuto, ogni meraviglia già fotografata. E così, anche il turista si smarrisce: non più viandante, ma figurante in una processione di selfie e itinerari prefabbricati. L’unicità delle cose si perde, come polvere d’oro dispersa nel vento.
Il mondo, invece di ampliarsi, si contrae in una mappa di luoghi già visti, già vissuti, già svuotati. In questo regno affollato, il viaggio non è più domanda, ma risposta automatica. E il senso si eclissa, lasciando spazio a un straniamento sottile, a una malinconia che non nasce dalla distanza, ma dalla ripetizione.
Tuttavia, un cittadino non ammaliato, un uomo distinto, con lo sguardo ironico e il cognome pesante: Alessandro Gassman, figlio d’arte. Si rese conto che l’incantesimo economico aveva ben due facce, come una medaglia. Vedendo i lidi svuotati, imputò l’assenza delle famiglie al caro prezzi: “Cari amici gestori di stabilimenti balneari. Leggo che la stagione non sta andando bene bene. Secondo voi perché? Forse avete un po’ esagerato con i prezzi e la situazione economica del paese spinge gli italiani a scegliere una spiaggia libera? Abbassate i prezzi e le cose, forse, andranno meglio. Capito come?”
I lidi non si svuotano poiché nessuno li desidera, ma perché chi li desidera non può più permetterseli. Dunque, sulle spiagge italiane, si vede la situazione dicotomica dei lidi vuoti e delle spiagge libere occupate, straripanti di turisti, autoctoni, vacanzieri esasperati che piantano le tende anche per un mese intero perché, pur ammaliati dalla melodia del pifferaio, rischierebbero di morire affogati dai debiti se lo seguissero. E conviene di più occupare il demanio di Stato gratuitamente che pagare una struttura che dissangua le tasche. Anche a costo di levare lo stesso diritto al riposo ad altri che, più educati ma parimenti esasperati e stanchi, preferiscono rinunciare definitivamente alle vacanze. Il turismo seriale ha reso ingordi i gestori: “perché dovrei lasciare un lettino e un ombrellone in prima fila per 20 euro? Se metto a 60 euro la prima fila a 40 la seconda e così via… nessuno potrà obiettare! Tanto la mia meta è gettonata e il turista medio pur di fare un selfie col mare e una foto in bikini in una rinomata spiaggia della costa, pagherà tanto oro quanto pesa!”. Ma dal fondo della piazza, una voce si levò con fermezza: era Chiara Saraceno, la sociologa del regno, che ricordava a tutti che il problema non era solo il costo, ma il reddito. “Non si può colpevolizzare chi non parte,” disse, “quando l’economia disegna confini sempre più stretti attorno ai corpi e ai desideri.”
Il Pifferaio continuava a suonare, ma le sue note si facevano sempre più stridule. I numeri parlavano chiaro e i cantastorie del regno li diffondevano: 8,4 milioni di italiani non sarebbero andati in vacanza, e il 69% di loro per ragioni economiche. Una settimana di ferie costava in media 918 euro a testa, 1.400 per una coppia al mare. Una famiglia di quattro persone, considerando viaggio, soggiorno, ombrellone, lettino, divertimento e ristoranti, avrebbe speso 6.539,30 euro, il +2,5% rispetto all’anno precedente.
Nel frattempo, nel palazzo dorato dell’economia, sedeva il Re delle Monete. Distribuiva ricchezze con mano selettiva: chi possedeva riceveva, chi mancava restava invisibile. I suoi consiglieri, fedeli al pensiero smithiano, sostenevano che i poveri lo fossero per scelta, per pigrizia, per mancata adesione al mercato. Ma la musica del Pifferaio mancava sempre più di battute e spartiti e la voce dei cantastorie cominciò a prendere il sopravvento: 2,18 milioni di famiglie vivevano in povertà assoluta. 5,6 milioni di individui non raggiungevano la soglia minima di sussistenza. Non si trattava di emarginati, ma di nuovi poveri: persone con casa, lavoro e famiglia, ma senza possibilità di riposo. Il regno si trovava così diviso tra chi poteva partire e chi restava, tra chi seguiva il Pifferaio e chi ne ascoltava solo l’eco. Le spiagge si svuotavano, le case a mare restavano chiuse, e l’estate si faceva sempre più breve, più cara, più distante.
In un angolo del regno, i cantastorie iniziarono a raccontare una nuova fiaba. Una fiaba in cui il diritto al riposo non era un lusso, ma una necessità. In cui la vacanza non era evasione, ma riconoscimento. In cui il flauto del Pifferaio veniva sostituito da una voce corale, fatta di equità, di politiche pubbliche, di rispetto per il tempo umano.
Simone Weil ci ha insegnato che il lavoro senza pausa è una forma di violenza. “Il lavoro che non lascia spazio all’anima è una macchina che schiaccia il pensiero.”
Il riposo, allora, non è evasione: è resistenza, è cura, è giustizia. È il tempo necessario per ritrovare il senso, per non diventare ingranaggi. E finché il riposo sarà negato, la fiaba non potrà finire. Perché ogni corpo stanco è una denuncia, ogni estate rubata è una ferita. E forse, un giorno, il regno capirà che la vera rivoluzione comincia dal diritto di fermarsi.