Cronaca

Israele attacca l’Iran. Un conflitto che dura da più di 40 anni

Nella notte tra giovedì 12 e venerdì 13 giugno Israele, senza preavviso, ha attaccato l’Iran colpendo svariati siti militari e nucleari e uccidendo diverse figure chiave iraniane, vertici militari e scienziati che si occupavano del programma nucleare. Gli Stati Uniti hanno parlato di “un’azione unilaterale” affermando di “non essere coinvolti in nessun modo”, ma il presidente Trump ha anche ammesso di aver ricevuto una telefonata dal premier israeliano prima dell’attacco; lo stesso Netanyahu ha affermato che senza l’acquiescenza degli USA, Israele non avrebbe osato attaccare (“senza il loro appoggio forse non avremmo lanciato”, sono le esatte parole del Premier israeliano).
La risposta del regime iraniano è arrivata rapidissima nella serata di venerdì. “La nostra vendetta erutterà come un vulcano”, hanno annunciato le Forze armate iraniane su X, mentre pubblicavano una foto con il lancio di missili “scagliati da Allah”. Con l’operazione soprannominata “True promise III”, centinaia di missili iraniani hanno attaccato il centro di Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa; dopo due notti si parla già di oltre 13 morti e 360 feriti israeliani, oltre che della distruzione di numerosi edifici; pare che due agenti del Mossad siano stati arrestati mentre preparavano bombe. Gli ayatollah inoltre si dichiarano pronti a bombardare “chi sta aiutando lo Stato ebraico”. Nel mirino le fortificazioni americane, francesi e inglesi in Medioriente.
Trump ha a sua volta affermato: “Se Teheran ci attacca, risponderemo con tutta la nostra forza”.
Questi, in sintesi, sono i fatti degli ultimi giorni.
Ma quali sono le ragioni dell’attacco all’Iran?
Ufficialmente l’operazione “Rising Lion” è diretta contro il programma nucleare iraniano. L’intelligence israeliana sostiene che l’Iran ha attualmente abbastanza uranio arricchito per costruire 15 bombe nucleari; anche l’Agenzia Onu per il nucleare, nei giorni scorsi, per la prima volta aveva segnalato attività iraniane incompatibili con il processo di produzione di centrali al solo scopo civile. Per tali motivi l’Iran rientrerebbe pienamente nell’ambito della cosiddetta “Dottrina Begin” del 1981, che prevedeva attacchi mirati e preventivi contro potenziali nemici di Israele che avessero cercato di sviluppare armi atomiche.
Ma è indubbio però che l’ultimo attacco all’Iran avviene in una fase di grave difficoltà per Netanyahu sia sul fronte della politica estera che sul fronte interno; sempre più dura, infatti, appare la condanna della comunità politica internazionale nei confronti della strage compiuta nella Striscia di Gaza; molti paesi dell’Unione europea stanno ragionando sulla possibile sospensione degli accordi di associazione con Israele, mentre Francia e Arabia Saudita stavano addirittura organizzando a New York una conferenza internazionale per il riconoscimento dello stato Palestinese.
In questo senso l’attacco all’Iran potrebbe essere anche un vero e proprio “diversivo” per distogliere l’attenzione mondiale dallo sterminio nella Striscia di Gaza. Non è un caso che proprio in questi giorni Israele abbia tagliato l’elettricità nella Striscia, rendendo di fatto impossibili i collegamenti via Internet e il funzionamento di quel che resta degli ospedali ancora in piedi. Con Gaza sempre più isolata e affamata, e i riflettori del mondo puntati altrove, Netanyahu potrebbe essere libero di portare avanti indisturbato la sua operazione di sterminio della popolazione nella Striscia.
Inoltre il nuovo fronte bellico consentirebbe al premier di porre un freno alle velleità dei gruppi ultraortodossi, cruciali all’interno della sua coalizione politica. Qualche giorno fa infatti era stata presentata in Israele una proposta di legge per lo scioglimento del Parlamento (e quindi per la caduta del governo); paradossalmente non è stata l’opposizione di sinistra a minacciare il governo, ma l’ala “charedì” (o “ultraortodossa”, come dicono i giornali occidentali); la maggioranza appariva infatti divisa sulla spinosa questione della coscrizione obbligatoria, cioè dell’iscrizione alle liste per la chiamata al servizio militare, degli ebrei ultraortodossi. Per decenni, infatti, questi ultimi hanno goduto di un’esenzione sempre più impopolare nella società israeliana (soprattutto da quando il Paese è in guerra con Hamas).
L’opposizione, che sperava di far cadere il governo, ha radunato i partiti ultraortodossi alleati del primo ministro Benjamin Netanyahu che avevano minacciato di abbandonarlo.
Per un soffio il parlamento israeliano ha votato contro il disegno di legge (solo 61 dei 120 membri della Knesset) e Netanyahu è ancora in carica.
Ma se vogliamo davvero comprendere le ragioni di questo nuovo conflitto è bene ricordare che l’ostilità Israele-Iran ha origini antiche.
Se Israele aveva mantenuto relazioni relativamente buone con lo Shah Reza Pahlavi, dopo la rivoluzione iraniana del 1979 Khomeini aveva dichiarato Israele “nemico dell’Islam” e “Il piccolo Satana”; gli Stati Uniti d’America furono a loro volta chiamati “Il Grande Satana”.
Con la nascita della Repubblica islamica, l’Iran aveva quindi interrotto ogni rapporto con Israele adottando una forte posizione di antisionismo militante.
Malgrado l’inimicizia però, durante la guerra Iran-Iraq (“Operazione Seashell” del 1981), Israele vendette all’Iran 75 milioni di dollari statunitensi in armi, provenienti da scorte preesistenti di industrie nazionali, oltre che aerei militari. Nonostante tutti i discorsi dei leader iraniani e le denunce contro Israele alle preghiere del venerdì, erano presenti non meno di circa cento consiglieri e tecnici israeliani in Iran in ogni momento durante la guerra del Golfo, ospitati in un campo isolato e attentamente sorvegliato giusto a nord di Teheran, dove rimasero perfino dopo il cessate il fuoco.
In quell’occasione il nemico di Israele era Saddam Hussein e il sostegno del popolo ebraico si rivelò pertanto cruciale per mantenere in volo l’aviazione iraniana contro l’Iraq. Durante la “Guerra del Golfo”, a quanto pare, gli interessi economici derivanti dalla vendita delle armi ebbero il sopravvento sulle questioni ideologiche.
Le ostilità tra i due paesi però ripresero presto: già nel dicembre 2000 l’ayatollah Ali Khamenei definì Israele “un tumore canceroso” che avrebbe dovuto essere rimosso dalla regione.
L’ex presidente dell’Iran Mahmud Ahmadinejad – in carica dall’agosto del 2005 all’agosto del 2013, adottò a sua volta una radicale posizione antisionista, improntata ad un forte fondamentalismo islamico
Più di recente la Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei, ha affermato: “Il recente mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa non è sufficiente. Netanyahu e le autorità israeliane dovrebbero essere giustiziati per crimini di guerra”.
Il recente attacco all’Iran, dunque, potrebbe essere dovuto anche al desiderio di ridurre al silenzio un paese che da molti anni non riconosce l’esistenza dello stato ebraico e che di continuo esprime pubblicamente le proprie posizioni antisioniste.
Certo, malgrado l’immagine forte e tracotante che mostra ai Media, Netanyahu sarà probabilmente ricordato nei libri di storia come l’uomo che ha scelto deliberatamente di usare la guerra come strumento per alimentare le proprie ambizioni, mantenere il potere, salvaguardare i propri interessi mediante la sconfitta definitiva della Mezzaluna sciita che da 45 anni rappresenta il suo principale antagonista e ridisegnare il Medio Oriente-
In Italia, anche se alcuni hanno tentato di difendere l’attacco giustificandolo con la necessità di piegare l’Iran e di scovare i laboratori di uranio arricchito per costruire bombe nucleari, in realtà come ha affermato Lucio Caracciolo e, soprattutto, Farian Sabahi Seyed, giornalista e orientalista italiana , docente di “History and Politics of Iran” e “Journalism” presso la John Cabot University di Roma, “gli iraniani non hanno la bomba atomica” anche se è dal 2019 che arricchiscono l’uranio.
La verità è che si tratta di una guerra di cui lo Stato ebraico non aveva affatto bisogno, considerato lo sforzo militare nella Striscia di Gaza, l’incerta tregua in Libano e le azioni degli Houthi. “Ma la prospettiva di Benjamin Netanyahu – come si legge su “Il Fatto quotidiano” – guarda a un obiettivo che, forse, ai suoi occhi non è poi così distante: lo sgretolamento definitivo di quell’Asse della resistenza, quella Mezzaluna sciita che da 45 anni rappresenta il suo principale antagonista in un Medio Oriente che, con la caduta degli ayatollah, verrebbe totalmente ridisegnato. L’inizio di questa stagione ha una data precisa: 8 ottobre 2023. Il giorno dopo l’attacco di Hamas al cuore di Israele, lo Stato ebraico ha il pretesto che cercava per mettere in atto piani che, non è un segreto, erano allo studio da anni. Così, la guerra nella Striscia in nome di quel “diritto all’autodifesa” superato ormai decine di migliaia di morti fa si è presto trasformata in uno scontro con tutto quel blocco che rappresenta per Tel Aviv una minaccia esistenziale e che non ha perso tempo a schierarsi al fianco di Hamas nella “guerra di resistenza”.

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