Cronaca

Femminicidi

Nonostante il Consiglio di Ministri abbia approvato un disegno di legge recante “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”, in Italia le donne continuano a essere violentemente uccise. A distanza di pochissimi giorni due nuovi femminicidi: Pamela Genini e Luciana Ronchi.
Pamela Genini è stata uccisa dal compagno Gianluca Soncin che è rimasto in silenzio davanti al gip. L’aggressione è avvenuta martedì 14 ottobre sotto gli occhi dei vicini. Ammazzata “al culmine di una serie di condotte persecutorie” e “dopo averla ripetutamente minacciata di morte”. Modella e giovane imprenditrice, Pamela Genini aveva 29 anni ed era originaria di Strozza, un paesino della Valle Imagna, nelle Prealpi bergamasche, ma erano ormai anni che viveva a Milano. È stata uccisa dal suo compagno, Gianluca Soncin, sul terrazzino della sua abitazione, pochi momenti prima che la polizia riuscisse a fare irruzione.
Luciana Ronchi, 62 anni, è stata uccisa dall’ex marito Luigi Morcaldi che perseguitava la vittima già da tempo dopo la separazione. Dovrà rispondere dell’accusa di omicidio. Per gli inquirenti è stato “un agguato” in piena regola. Secondo una prima ricostruzione, l’uomo avrebbe atteso Luciana Ronchi sotto casa, in pieno giorno, l’avrebbe prima presa a pugni e poi accoltellata e sfregiata al volto. L’aggressore si sarebbe poi allontanato a bordo del suo scooter gettando l’arma del delitto in un cestino vicino al Parco Nord. Durante la fuga avrebbe riacceso il cellulare e proprio questo gesto l’avrebbe tradito, consentendo agli operatori di polizia di individuarlo e fermarlo. “Sono un fallito e un omicida – avrebbe detto l’uomo – datemi direttamente l’ergastolo”. Per lei, per Luciana e le altre, “per fermare ogni forma di violenza contro le donne”, a Milano è stata organizzata una camminata silenziosa partendo proprio da via Giuseppina Grassini, quella stessa via dove la 62enne è stata accoltellata.
Nei primi sette mesi dell’anno sono stati registrati circa 60 femminicidi, ai quali vanno aggiunti quelli degli ultimi mesi e ancora non inclusi nei dati ufficiali del Viminale. Il totale si aggira intorno a 70 femminicidi.
Si tratta, di avvenimenti di una gravità enorme e non di fatti isolati.
Sono mesi che la cronaca riporta notizie di ragazze e donne abusate, violentate, uccise.
Alla base di tutte queste violenze vi è sempre un atteggiamento di dominio, di possesso e predazione del maschio sulla femmina – dove sesso e aggressione a volte sono connessi, in presenza di riferimenti culturali che legittimano gli istinti maschili di sopraffazione.
La violenza di genere è un fenomeno dilagante che rivela il fallimento della società, della scuola e della famiglia.
In Italia, se nel 2025 sono già settanta le donne uccise da uomini con grande crudeltà, nel 2024 ogni tre giorni una donna è stata uccisa per mano di un uomo, sia esso il marito o l’ex, il fidanzato o il compagno rifiutato. Più in generale, una donna su tre, nel corso della vita, ha subito una violenza domestica che, per fortuna, non è sfociato in un femminicidio. E i dati statistici sono veri per difetto perché l’80% delle donne non denuncia o per paura o per vergogna.
La violenza sulle donne, per tanti, rivela il fallimento della intera società, della scuola, della famiglia ed è l’emblema del retaggio culturale maschilista del nostro paese o, come sostengono tanti sociologi, del “retaggio culturale patriarcale”, della mancata evoluzione dell’immaginario maschile. Alcuni parlano di narcisismo patologico ma è troppo riduttivo e ci aiuta poco a capire il fenomeno. Altri parlano di mascolinità tossica intendendo l’insieme delle credenze stratificate culturalmente e socialmente tese a considerare la donna un oggetto da possedere, privo di identità e di autonomia, un oggetto da sottomettere e, nel caso di una minima ribellione o di un allontanamento, da uccidere in modo da ristabilire, per questa atroce via, la potenza del maschio offeso.
Risulta quindi evidente l’esigenza di un ripensamento collettivo dei rapporti di genere che interessi tutta la società, partendo dalle forze dell’ordine, spesso inadeguate a proteggere efficacemente le vittime, dalla magistratura, lenta e a volte poco risolutiva, e dai luoghi dove per primi si realizza la funzione educativa e di crescita: la famiglia e la scuola.

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