Spettacoli

Cucine, amori e libertà con “Giuditta e il monsù”

È andata in scena a Sala Futura la pièce teatrale: “Giuditta e il monsù” tratta dal romanzo di Costanza DiQuattro, con la regia di Cinzia Maccagnano e le musiche di Mario Incudine. Protagonisti: Pietro Montandon, Luana Toscano, Alessia D’Anna, Luigi Nicotra, Ornella Brunetto. Costumi Riccardo Cappello, aiuto regia Marta Cirello, produzione Teatro Stabile di Catania
Felice connubio quello tra la scrittrice e drammaturga ragusana Costanza DiQuattro e la poliedrica, virtuosa regista catanese Cinzia Maccagnano; ottima la trasposizione dalla letteratura al teatro; riuscitissima l’ambientazione nella Sicilia in quell’epocale passaggio tra Otto e Novecento.
“Ci sono giornate che preludono a infausti eventi -scrive l’autrice nel suo romanzo candidato al Premio Strega 2022-… come una premonizione, che… gioca d’azzardo con la vita degli innocenti.”
Uno di quei giorni è il 29 maggio 1884 quando a Ibla, a Palazzo Chiaramonte le urla della partoriente marchesa Ottavia rimbombano nelle avite stanze:
«Dite al marchese che non entrerà mai più nella mia stanza, piuttosto mi faccio monaca, mi vado a rinchiudere dalle Benedettine, prendo i voti, se è il caso mi ammazzo ma lui non si avvicinerà mai più al mio letto. Maledetto!»
Il rigido, impassibile marchese Romualdo, dopo sette anni di matrimonio e tre figlie femmine, è invece nel suo studio in attesa del desiato annuncio che possa assicurare la continuità del casato:
“Tutte femmine, infinitamente femmine, tragicamente femmine. E per ogni parto Romualdo sperava e continuava a sperare di sentire un trambusto concitato di voci e di vedere spuntare il dottore Galfo o Maruzza con in braccio un bambino, magari anticipati dalle loro stesse voci: «Masculu è, finalmente nascìu u Marchisi!».”.
Sì è vero la Costituzione del 1812 aveva abolito il feudalesimo e con esso la legge del maggiorascato che riservava solo al primogenito maschio titolo e patrimonio escludendo tutti gli ultrageniti, specie le femmine, destinate alla monacazione (“Aut virum…aut murum” è il titolo di una mia monografia dedicata a questa problematica).
Ma si sa una legge non può cancellare d’un tratto gli atavici costumi…. e il sottile fascino dell’aristocrazia.
Il figlio maschio sarebbe rimasto a lungo (forse ancora?!), come pregiudizio, un ‘dono della fortuna’.
Ma a nascere invece è Giuditta e nessuno, né Maruzza, la cameriera di casa, né le servette Giannina e Concetta, e neppure la levatrice Gna’ Mena o il dottor Galfo se la sentono di riferire la notizia al marchese.
Intanto però un neonato maschio, abbandonato davanti alla porta, viene accolto a Palazzo e affidato dal marchese ‘rassegnato’ alla quarta ‘fimminedda’ -e che lo battezza appunto Fortunato – a don Nicola e donna Marianna, il monsù, il cuoco della casa e la moglie, che da sempre desideravano invano un figlio.
Alla dimora dei Chiaramonte, così, invece di un bambino ne arrivano due: Giuditta e Fortunato.
La poetica drammaturgia della DiQuattro si coniuga con la trama musicale di Mario Incudine, con il ritmo e la vivacità della regista, con una scenografia che si avvale anche di una curiosa macchina teatrale: una scatola /cassapanca con una superficie a specchio (gli specchi vanno oggi di moda al teatro!!!) che si trasforma all’occorrenza da tavolo a letto, a grata di monastero.
Dall’evento di quella sera in poi si dipana il racconto intenso, delicato, avvincente dei due protagonisti che crescono insieme tra giochi, monellerie, innocenti complicità, sogni e colpi di scena: Giuditta ribelle, pronta a rompere gli schemi; Fortunato, saggio e studioso, che non riesce a resisterle.
Attorno alla cucina piena di fascino -con i suoi profumi, i sapori e le sapienti manipolazioni gastronomiche- la vita continua: gli adulti invecchiano, a volte muoiono, le sorelle abbracciano il loro destino (matrimonio e monacazione).
I due adolescenti, immersi in un’atmosfera evocativa ai limiti del visionario scoprono a poco a poco un’ostinata passione, un amore travolgente che non conosce differenze sociali o di carattere.
“Ma quale valore può avere questa differenza agli occhi puri di due compagni di giochi che crescendo tra ricette e passeggiate avventurose ad un certo punto si scoprono legati dall’amore? Nessuno. Perché chi è giovane è sfacciatamente coraggioso – scrive Cinzia Maccagnano nelle note di regia – Per questo nella messinscena ho immaginato che tutto ciò che accade è visto attraverso lo sguardo bambino di Giuditta… con la complicità di Fortunato, trasforma la realtà in colorate visioni: quadri ora cupi, ora luminosi, a tratti allegorici, su un filo sospeso tra dramma e commedia”.
Quando però il marchese si accorge che il legame tra i due giovani è destinato a trasformarsi in vero amore, fa di tutto per separarli, imprimendo alla narrazione un registro più grave…fino alla rivelazione finale, il devastante segreto che dà una svolta definitiva alle vite dei due amanti.
Segreti inconfessabili, malinconie, rimpianti prendono il posto dell’antica allegria. In meno di un’ora la commedia diventa dramma.
Nel quadro familiare mutano i colori: la leggiadra rivoluzionaria Giuditta si trasforma in una cinica signora borghese, maritata per convenienza, che vuole dimenticare il suo incestuoso amore, il soldato Fortunato (intanto è scoppiata la Grande guerra!), strappando l’ultima lettera inviatale dal fronte.
“La felicità gioca spesso il fatale scherzo di sfumare, – è ancora il romanzo – si affievolisce come la luce di una candela consunta, si attenua come un affresco violato dal tempo”.
E a questo proposito, illuminante rimane la proposta del testo al Premio Strega 2022 formulata da Franco Di Mare:
«Giuditta e il monsù è un romanzo corale e introspettivo che racconta di un amore impossibile in una Sicilia bruciata dal caldo e dalle passioni. Decadenza e futuro si incontrano e scontrano nella verità di un libro tenero e crudele al contempo… È una storia dentro la storia in cui l’amore diventa un pretesto capace di raccontare l’ineluttabilità del destino fino a un finale inaspettato ed epico, degno di un epilogo da tragedia greca.»
Uno spettacolo coinvolgente, dunque, che ci porta per mano in un mondo che fu ma che, nella rivisitazione di Cinzia Maccagnano, è ancora capace di farci ridere, sognare, commuovere ed emozionare.

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