L'Opinione

Tra attacchi e contrattacchi: il difficile cammino della pace

Mentre l’Iran bombarda con i suoi missili  Israele, dopo l’attacco a Damasco e all’ambasciata siriana,  il presidente americano Biden, avverte Netanyahu che, pur avendolo aiutato a intercettare i missili iraniani rendendoli innocui, non è disposto ad aiutarlo in un conflitto contro l’Iran.  E mentre la Corte di Giustizia dell’Aia  ordina a Israele di rispettare i diritti umanitari nella striscia di Gaza   e il G7 presieduto da Giorgia Meloni, pur condannando l’attacco irariano, chiede il cessate il fuoco, continua l’aggressione della Russia all’Ucraina con il lento ma  incessante avanzamento nei suoi territori e la distruzione delle  infrastrutture energetiche.  Con un numero di soldati insufficiente e poche armi, con il ritardo delle consegne degli aiuti militari da parte degli Stati Uniti e della stessa Europa in tanti temono la sconfitta di Kiev e la vittoria di Putin.  

Il primo ministro polacco Donald Tusk ha sollecitato i Paesi europei ad aumentare gli investimenti nella difesa e gli aiuti all’Ucraina, sia perché “se l’Ucraina sarà sconfitta dalla Russia, nessuno in Europa potrà sentirsi al sicuro”, sia perché il continente sta entrando nell’era “prebellica” e la guerra ormai è una realtà, non un’idea astratta.

Il presidente ucraino  Zelensky continua a chiedere armi e a  lanciare, non avendo più giovani soldati, campagne di reclutamento  degli adulti mentre cambia i vertici militari, licenzia il segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale Oleksiy Danilov  e nomina Oleksandr Litvinenko. Il governo ucraino sta cercando, altresì,  di potenziare l’industria della difesa e ha stanziato quasi 1,4 miliardi di dollari nel 2024 per  produrre armi, ma la produzione è sempre insufficiente se paragonata a quella della Russia che ha quadruplicato il suo potenziale bellico e ha  firmato un decreto per l’arruolamento obbligatorio di 147.000 coscritti che si aggiungeranno ai 130.000 arruolati in autunno.

L’opinione pubblica dei vari paesi, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dalla Spagna all’Italia,  chiede la pace ma nessuno dei potenti del mondo, tranne il Papa, vuol fare il primo passo per riprendere i negoziati di pace. In parecchi sostengono che in questo momento  la richiesta della pace equivarrebbe a una resa e sancirebbe la vittoria di Putin. Altri, di fronte alla sicura sconfitta e alla possibilità che venga eletto alla Casa Bianca Donald Trump, contrario all’invio di armi all’Ucraina, chiedono a gran voce l’armistizio.

Resa, negoziato, armistizio, tregua, trattative, che per tanti decenni erano diventati, in Europa, termini desueti, in un clima di grande inquietudine sono diventati parole ricorrenti, usati, a volte, come sinonimi e rifiutati, altre volte invocati in contrapposizione all’uso della violenza e delle armi.

Armistizio, dal latino moderno armistitium, composto di (arma)  “armi”, e di stare, “fermarsi” è un accordo fra stati belligeranti che sospende, a tempo determinato o indeterminato, le ostilità.  Ma di accordo non vogliono parlare né Putin, convinto ormai di vincere, né  Zelensky che continua a chiedere armi e missili a lunga gittata.

Ancora più esplosiva la situazione nella striscia di Gaza dove, dopo l’attentato terroristico di Hamas, migliaia di palestinesi, anche quando sono in fila per ottenere viveri, vengono massacrati.

Di accordo, di negoziato, o di armistizio, non vogliono sentire parlare né Hamas che non intende ancora liberare gli ostaggi, Netanyahu che, pur non prevedendo un contrattacco all’Iran, intende dirigersi a Rafah nonostante il segretario di Stato americano Blinken, in visita in Egitto, abbia dichiarato che “un’operazione militare a Rafah non fosse necessaria”. Deciso ad andare a Rafah anche senza l’appoggio Usa, Netanyahu non è disposto neanche ad accettare una tregua o un cessate il fuoco che sono forme di cessazione delle ostilità provvisorie e limitate nel tempo.

Una situazione esplosiva in cui la pace e il negoziato, che rappresentano la soluzione dei conflitti,  appaiono mete tanto, troppo lontane e difficili da raggiungere. E i venti di guerra continuano a spirare. Eppure, come ha affermato il cardinale Matteo Maria Zuppi – nella lectio magistralis tenuta  all’Università di Catania, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Global Politics and Euro-Mediterranean- Relations –  “dobbiamo lavorare affinché ciò che noi chiamiamo pace non sia invece soltanto una tregua. Se vogliamo la pace, dobbiamo affermare la forza del diritto, non quella delle armi, investendo tanto sulle realtà nazionali che possono garantire la composizione multilaterale dei conflitti e la cooperazione lungimirante tra i popoli e gli Stati”. 

*Professoressa ordinario di Storia del pensiero economico.

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