Cultura

Gemma Calabresi Milite, quando la giustizia conduce alla pace

«Che diritto avevo io allora di relegare per tutta la vita coloro che avevano ucciso mio marito al loro gesto peggiore?». È con questa domanda carica di significato che Gemma Calabresi Milite, vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1972 in un agguato terroristico perpetrato dai militanti del movimento di estrema sinistra Lotta Continua, ha restituito agli ascoltatori presenti nel Palazzo della Cultura di Catania la profondità del percorso esistenziale che l’ha condotta al perdono di coloro che hanno irrimediabilmente sconvolto la sua vita. La scrittrice, infatti, è stata protagonista dell’incontro La crepa e la luce, titolo che richiama quello del libro pubblicato nel 2022 da Mondadori in cui la donna ha ripercorso gli ultimi cinquant’anni della sua vita. L’evento, moderato dalla presidente del Centro Culturale di Catania Anna Sortino, ha anche rappresentato la conclusione della serie di eventi che ha alimentato il dibattito sulla giustizia riparativa Oltre la pena. Incontrare persone. Ricomporre relazioni, promossa dalla Fondazione Francesco Ventorinodall’Arcidiocesi di Catania, dal Centro Culturale di Catania e dalla Fondazione Sant’Agata.«Il perdono – ha proseguito – non è appannaggio della Chiesa, prima o poi tutti avremo qualcuno da perdonare o dovremo essere perdonati e anche chi non crede può farlo, con la propria umanità». Un’umanità spesso latente, affogata dalla rabbia e dal rimorso, che tuttavia può essere riscoperta anche negli istanti più imprevedibili: «Ho avuto diversi segni che mi hanno indotta a perdonare: il primo è stato sul divano di casa mia. Quando mio marito fu ucciso sotto casa non sentii gli spari, i suoi colleghi accorsero a casa mia, ma l’unico che ebbe il coraggio di sussurrarmi ciò che era accaduto fu il mio parroco, Don Sandro. Disperata, mi accasciai sul divano senza percepire nulla intorno a me, solo un’assurda pace interiore e una grande forza, come se qualcuno fosse venuto in mio soccorso. Era Dio, che mi donò la generosità di chiedere un Ave Maria per la famiglia dell’assassino, che avrebbe sofferto di un dolore più grande del mio».La forza di Gemma Calabresi Milite è persino andata oltre il perdono. Ha saputo restituire dignità a coloro che si erano macchiati dell’omicidio del marito: «In una seduta dell’infinito processo, che ho vissuto come un calvario, ho visto un imputato andare da suo figlio e abbracciarlo prima di mandarlo fuori dall’aula: fu allora che capii che quell’uomo era un padre affettuoso tanto quanto me da madre. Ho capito il senso di quella scena anni dopo, insegnando religione a scuola: un bambino mi chiese perché dei morti si ricordano solo le buone azioni e io risposi che avviene perché bisogna trasmettere solo l’esempio positivo lasciato. Questi non erano solo assassini, come li avevo sempre definiti, ma erano anche persone, ariti, padri, amici. Sono i terroristi che spersonalizzano i loro nemici mostrandoli alla massa solo come colpevoli. Per questo esorto sempre i giovani a non fare parte del gregge, ma a mantenere un pensiero libero e individuale». 

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