Politica

Bisogna “tornare alla politica”

«Torniamo allo Statuto», tuonò in forma anonima il politico conservatore italiano Sidney Sonnino, non firmando un suo articolo pubblicato l’1 gennaio 1897 sulla rivista “La nuova Antologia”, che denunziava la debolezza del sistema parlamentare italiano «inetto nei suoi esponenti, inquinato da interessi particolari e clientelari e dunque incapace di guidare lo stato». Scriveva ancora Sonnino: «Senza dubbio alcuno, il parlamentarismo, quale si esplica in Italia, è ammalato; e conviene studiarne le condizioni ed approntare i rimedi, se non vogliamo vedercelo intisichire nelle mani, minato dall’indifferenza o dal disprezzo della nazione. […]. Ogni giorno si fa più viva in tutti la coscienza della fondamentale verità, che la semplice riunione, il cumulo degli interessi particolari, sia pure rappresentati da tanti singoli aggruppamenti a base territoriale, non ci dà l’espressione sincera dell’interesse generale della nazione, né ci fornisce gli elementi sufficienti per tutelarlo e garantirlo. […]».
Non è attualissimo? Centoventi e più anni sono passati ma le cose, facendo le debite proporzioni non sembrano essere cambiate, anzi forse peggiorate. In fondo, in quegli anni ormai lontanissimi (fino al secolo scorso si incontravano ancora persone nate in quei giorni, adesso ovviamente non più) anche se c’era una forte crisi del neonato sistema politico italiano, da lì a poco si sarebbe affermata una nuova classe politica di grande livello che avrebbe ben poco fatto rimpiangere quella postrisorgimentale. Giovanni Giolitti l’esempio più eclatante ma certamente non l’unico esponente di valore. Da lì ad un quarto di secolo si imporrà il fascismo ma quei politici furono la base dell’opposizione parlamentare ed extraparlamentare, della Resistenza ed infine della rinascita dell’Italia nel secondo dopoguerra.
Adesso, purtroppo, abbiamo a disposizione solo un congruo numero spiantati o opportunisti che non avendo e sapendo fare di meglio, si sono messi in politica. Ecco il regalo che questi ultimi anni hanno fatto all’Italia. Un uomo politico italiano, più di 30 anni fa, nell’ottobre del 1992, con lucidità profetica disse: «Da noi, nella fase iniziale, i leghisti dovevano rappresentare la forza d’urto, quella che avrebbe aperto il varco ai “regolari”. Chi sono i regolari? Quelli che marciano all’insegna di un programma che riassumo con le parole dell’amico argentino Raul Alfonsin: l’egoismo sociale, l’ognuno per sé Dio per tutti, la democrazia elitistica, il parlamento delle personalità, lo stato minimo, le privatizzazioni a basso costo… ». Aveva perfettamente ragione: solo che la realtà ha asuperato la triste previsione.
Bisogna “tornare alla politica”, che per troppo tempo è stata dimenticata per fare posto agli interessi di parte, ai rancori personali, alle azioni giudiziarie, a tutto ciò che non è logica di buon governo. Anzi, bisogna abbandonare l’accezione negativa che le è stata abbinata. Troppi danni e guai hanno provocato gli “uomini nuovi, i “chilometro zero” che si sono inventati e ritrovati politici, amministratori, sindaci, ministri e presidenti. Eppure, il 28 gennaio 1919 a Monaco di Baviera, un certo Max Weber (ma chi si ricorda più di lui in questa Italia del Grande Fratello e di “borgatari”?) teneva una conferenza su “La politica come professione” e, tra l’altro, diceva: «Chi vive “per” la politica, fa di questa, in senso interiore, la propria vita»; e al contrario «“di” politica come professione vive chi tende a farne una duratura fonte di guadagno». Sembra chiaro a tutti che la maggior parte dei “nostri” (si fa per dire) abbiano fatto della politica una professione. Neppure lucrosa. I nostri attuali politici, non avendo neppure letto “L’assassinio come una delle belle arti” di Thomas de Quincey, si limitano ad azioni di piccolo cabotaggio come avere una o più belle amanti, posto riservato e sicuro in aereo, inviti a feste e goliardie varie, accesso a loft lussuosi o ricchi palazzi storici. Se poi possono aiutare qualche partente, amico o fidanzata, meglio ma non necessario o inevitabile. Scrisse Leo Longanesi: “La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Ho famiglia”.
E il popolo? La gente che dovrebbe essere il soggetto destinatario di tutto ciò? A questo penseranno i pochi che ancora riescono a farlo o ai quali è rimasta un tantino di voglia. Ai tanti non interessa proprio. Con buona pace dello stato sociale inventato dal cancelliere tedesco principe Ottone di Bismarck, delle Società di Mutuo Soccorso, delle sezioni di quartiere, delle casse Rurali e di tutto quanto i partiti (tanto bistrattati) del secolo scorso avevano messo in piedi. Sia quelli di estrazione cattolica, sia quelli socialisti. Ma adesso le cose sono cambiate, siamo tutti moderni. Basta andare a votare, scegliere tra bianco e nero, ed aspettare con fiducia. Anche perché le congiunture internazionali detteranno le regole impedendo interventi nazionali di grande respiro. Il problema (per noi) è che inglesi ed americani sono persone serie. Lì il sistema funziona, come del resto in Francia, Spagna, Germania, eccetera. Qualche volta ha funzionato anche in Italia ma, stranamente, quando ricordiamo di essere stati la quinta potenza economica mondiale diventiamo rossi in volto e qualcuno mistifica pure. Vergogna o rimorso oppure persistente malafede?

Nella foto: il 27 dicembre 1947 il Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola firma la Costituzione Italiana alla presenza del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e del Presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini, che controfirmeranno.

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