Pier Paolo Pasolini educatore “corsaro”, o del mondo come ‘totalità educabile’

Oggi, lo strazio senza fine per una morte crudele e violentissima dell’intellettuale più importante del ‘900 sembra abbia colpito, nel 1975, tutta l’Italia, ma non è stato così, è passato inosservato e sotto silenzio un delitto mostruoso, per coprire la vergogna di un depravato, cui in fondo era toccata una giusta fine. Non vogliamo affatto tessere le lodi di questo poliedrico e fine scrittore, cineasta, drammaturgo, né addentrarci nei misteri di una morte, probabilmente annunciata, vogliamo ricordare, fra le tante sue doti quella di educatore atipico, appunto ‘corsaro’ come lo definiamo nel titolo. Pier Paolo Pasolini è letto, qui, in guisa di educatore, per rendere esplicita quella “pedagogia in re” o del reale, che annulla ogni dettato della tradizione educativa borghese. Per presentarlo in tale veste, dobbiamo attraversare il suo rapporto con il ’68 in Italia e con il Movimento studentesco che, eco internazionale, arriva puntualmente nel nostro Paese a sconvolgere il quieto vivere di una sonnolenta democrazia di stampo conservatore, dominata da un saldo partito cattolico di centro, cui si contrapponeva una forte componente comunista. Nella considerazione critica di Pasolini tale Movimento non si è reso portatore di una istanza sociale coinvolgente, autenticamente emancipativa. I temi della scuola e del sapere, la trasmissione della cultura, la metodologia e la tecnica della prassi educativa, e tutto quanto riguarda l’educazione – i giovani, la famiglia, le relazioni, l’autorità – cruciali risvolti degli anni del Movimento, determinano la genesi di un modello pedagogico-politico per il quale l’educazione è politica perché la cultura che essa trasmette fa da tramite all’ideologia dominante, per citare Bernard Charlot. Affrontare la questione educativa nell’ottica del Movimento significa allargare l’orizzonte di analisi, andare oltre il dibattito pedagogico e coinvolgere il modello socio-politico e culturale di ispirazione. Cosa può averci detto Pasolini di significativo per la revisione/costruzione dei paradigmi pedagogici, in quegli anni, attorno a temi che interessano la pedagogia, la didattica, la formazione, la pratica educativa? In particolare, interessa vedere cosa abbia spinto questo spirito critico e inquieto a intervenire contro gli studenti che blateravano slogan senza comprenderne la portata. Specifici, puntuali, interventi finalizzati a discutere proprio dell’educazione – tradizionale, borghese, strutturata soprattutto nella più importante agenzia istituzionale, la scuola -, Pasolini li scrive, in più luoghi e circostanze, tra il ’74 e il ’75, e si interroga su ragioni e esiti di quella rottura introdotta nella storia educativa e scolastica, e in quella sociale, politica, economica e culturale del secolo scorso. Critico rispetto all’educazione tradizionale, egli la considera cellula di trasmissione di valori e norme etiche che tendono a stabilizzare sistema e potere, autoriproducendosi, proprio grazie all’educazione. La pedagogia pasoliniana è in re, irriducibile, ancorché parziale, se confinata all’idea di educazione dell’uomo: la paideia è rivoluzione; Pasolini attende pedagogicamente, si potrebbe dire, alla sua critica verso il sistema, con forte proiezione anti-borghese. E qui che si coglie la funzione dell’intellettuale come connotata intrinsecamente di vocazione pedagogica: «Il compito dell’intellettuale è una riduzione a formula binaria della funzione: il pedagogico e il demiurgico […] ma servire la vita da pedagogo e da demiurgo determina un’estensione della funzione di intellettuale».
Laddove, educazione e umanità sono elementi nel sistema dell’intelligenza pedagogica dell’Autore: il mondo è una totalità educabile, e il fronte primo dell’intellettuale, il suo compito originario, è sorvegliare il lato della luce. Pasolini, infatti, in un’intervista rilasciata poco prima della morte, senza mezzi termini esaspera la sua posizione: «[… è una tragedia questa] educazione comune, obbligatoria e sbagliata, che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata, in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora, una prima divisione, classica, è “stare con i deboli”. Ma io dico che in un certo senso tutti sono vittime. E tutti sono colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere».
La fonte più esplicita della sua intellettualità strutturalmente pedagogica è quel «trattatello pedagogico» Gennariello («[…] sto scrivendo nei primi mesi del 19755»), che riferisce le sue intenzioni connotate da contro-pedagogia istituzionale. Pasolini dialoga con il suo allievo ideale, il ragazzo napoletano da educare attraverso la realtà, la sola capace di educare, perché si rivolge direttamente all’uomo; egli sa che l’educazione naturale fornita dalle cose è una ‘pedagogia totalitaria’, inattaccabile da qualsivoglia volontà pedagogica. Sa che il metodo, come discorso critico sulla realtà, è giunto alla fine. «Poiché tu sei il destinatario di questo mio trattatello pedagogico, che qui esce a puntate –rischiando naturalmente di sacrificare l’attualità all’esecuzione progressiva del suo progetto – è bene, prima di tutto, che io ti descriva come ti immagino. È molto importante, perché è sempre necessario che si parli e si agisca in concreto. […]».
Gennariello è la pedagogia, intenzionalmente descrittiva, il trattato pedagogico, contro pedagogico; Gennariello – alla maniera di Émile – è un teste, costituisce una ‘prova a carico’ della funzione diseducante della scuola: «[…] nell’irrefutabile distanza tra la coscienza del pedagogo e la realtà del discente, il linguaggio delle ‘cose’ manifesta l’idea del perduto».
Scomodo per la Sinistra, per il ‘Movimento’, troppo puro nel suo anticonformismo, contraddittorio per molti, da generare una fitta schiera di detrattori, su Pasolini è caduto un silenzio generazionale, anche a causa di un adattamento di comodo, giustificativo – per molti, all’epoca-, di quanto si scrisse sulla sua oscura morte, che così oscura pare non sia stata, nonostante depistaggi e menzogne[1]. Difficile da leggere, da capire, da tradurre, da semplificare, Pasolini non può essere socializzato: o lo si cerca, oppure, non arriva da solo con la forza delle parole, dell’arte, della poesia, del racconto, della bellezza, così tanto celebrata, oggi, così ricercata dallo scrittore. «Pasolini “corsaro” non scriveva solo contro il potere, ma anche contro e per coloro che, all’opposizione del potere, sono il “futuro” del potere. “Guardiamo con uno spavento misto di ammirazione o odio chi osa dire qualcosa di opposto all’opposizione istituita?” Anche questa era una domanda difficile. Il corsaro non è forse all’opposizione dell’opposizione? E’ uno status difficile. Perché non è uno status. E’ un movimento continuo, permanente della critica. E’ doloroso. Il dolore, inutile in sé, è utile se fa nascere “conoscenza”. E non è “l’infelicità” delle troppe coscienze felici […]. Pasolini non parlava da “cittadino”. Ma da corsaro. Era il-legale, eslege, diverso, non-cittadino. […][2]».
Questo fine intellettuale apre la finestra sul ‘prospetto’: invita ad andare oltre, a pro-iettare immagini e ruoli, idee e programmi, oltre il presente, oltre il possibile, per trovare l’equilibrio tra speranza e illusione, in una fase storica in cui sembra compiuto tutto e che all’uomo non resta che integrare entro il sistema, ormai globale, ogni progetto, per farlo esaurire nel già fatto, già dato, già pensato. Sì, Pasolini è forse la nostra assicurazione contro la banalità delle mode, contro il conformismo, contro la passività, in qualunque fase storico-politica di esistenza. Di più, egli interpreta e incarna quello spirito critico, o della coscienza consapevole, che la ‘pedagogia scientifica e critica’, a lungo cercata nella sua prassi educativa, riesce a realizzare, per quel tentativo sistematico di smascheramento delle negazioni deontologiche ed etiche che stanno alla base dell’educazione omologante contemporanea.
[1] David Grieco, aiuto regista e amico di Pasolini, dà conto degli atti del convegno di Pisa sul mistero che circonda il romanzo cui da tempo lavorava lo scrittore, Petrolio, ‘sparito per 17 anni’: Atti del convegno “Petrolio 25 anni dopo”, Università di Pisa, 9-10 novembre 2017. Petrolio è un romanzo rimasto incompiuto, pubblicato postumo nel 1992 da Einaudi.
[2] G. Scalia, Discorso parlato su Pasolini “corsaro”, numero speciale dedicato a Pasolini, a. III, n.1, 1976, ora in La mania della verità, Cappelli, Bologna 1978, p. 11.


